Si è parlato di Baarìa come di un’opera personale, teneramente autobiografica, che descrive la realtà di un piccolo paese facendo avvertire costantemente l’eco di tutto ciò che accade a distanza, ma Baarìa è anche “allegoria”, come sostiene Tornatore, “di tutti i luoghi in cui noi siamo nati”, ed  è forse per questo che, di fronte al grande schermo presente in sala, mi sono sentita come proiettata in un passato che, pur non avendo vissuto, mi appartiene.

 

Ciò che mi ha lasciato senza parole durante la proiezione del film è stata l’abilità con cui il regista ha saputo dare corpo ad immagini che erano già mie perché elaborate ascoltando le storie di mia nonna che mi racconta, ad esempio, di come, durante la Seconda Guerra Mondiale, riuscirono dopo tanti tentativi, a farsi capire da soldati che non comprendevano assolutamente nulla della loro lingua, perché la semplicità delle piccole cose della vita (come la richiesta di cibo, o la foto di moglie e figli) accomuna tutti, indipendentemente dalla nazionalità. Per quello che riguarda le mie emozioni di spettatrice, l’elemento civile e politico, che nel film ha grande rilievo, non ha destato più di tanto il mio interesse, forse perché non ha un ruolo predominante nei miei ricordi, che si fermano invece sull’immagine di mio nonno che portava il latte di casa in casa proprio come Peppino, o su quella delle ragazze che andavano a scuola di ricamo e cucito e nel frattempo scoprivano la vita con le sue emozioni e gioie più belle, o, ancora, su quella dei ragazzini che si divertivano a rubare la frutta dagli alberi prendendosi gioco del proprietario, che ai loro occhi appariva come un vero e proprio mostro cattivo. In questo meraviglioso groviglio di flashback, magistrali risultano le musiche del Maestro Ennio Morricone, che danno uno spessore epico alle immagini (ripenso a quella del piccolo protagonista che apre il film, la cui corsa si confonde con quella di suo padre ragazzino, o, ancora, alla scena delle bimbe che corrono straripanti di gioia con i grembiulini ricavati dal paracadute, dono dei soldati stranieri).

Sapiente il tentativo di alternare toni leggeri, divertenti, ad altri più impegnati e malinconici. Ottima la scelta di utilizzare volti noti del cinema come comparse. Scelta che ottiene, a mio avviso, il duplice effetto di puntare i riflettori sui protagonisti, due persone semplici di un paese semplice, ma al tempo stesso fissa l’attenzione e la memoria dello spettatore sui personaggi che nella storia di tutti i giorni hanno un ruolo per nulla marginale.

Bellissima, poi, la rete di richiami interni ordita dal regista che gioca sui personaggi, come, ad esempio, nel caso della nonna di Mannina la quale, profetizzando la propria morte, anticipa la figura della misteriosa viandante (interpretata dalla stessa attrice) che mostra di avere il dono dell’arte divinatoria; ma il mirabile gioco di rimandi interni cade anche sugli oggetti, come nel caso dell’orecchino che, caduto a seguito di uno schiaffo volto a frenare l’esuberanza di una bambina (la figlia di Peppino che non vuole darla vinta al padre),  ritorna, nel finale del film, proprio a sottolineare, forse, come il passato riviva nel presente, perché la micro-storia altro non è che un altalenare di immagini pronte a tornare, magari in un contesto diverso, in un momento diverso, ma con la stessa forza icastica ed espressiva di sempre.