assieme allo spettacolo "Mòbil", definito "telefonico-digitale" e portato in scena dalla compagnia anfitrione (regia del giovane Vincenzo Albano, testo di Sergi Belbel, autore catalano) in collaborazione con l'associazione "Restart" (Salerno) si terrà il 30 di questo mese. In palio i Premi Miglior Regia, Miglior Spettacolo, Miglior Attore, Migliore Attrice, Davimus.
E veniamo allo spettacolo in lizza il 2 ottobre: esso si intitolava "Il baciamano", di Manlio Santanelli, per la regia di Antonio Grimaldi.
È stato un momento di vita teatrale particolarmente catartico, con musiche appropriate e luci soffuse, cariche di tensione e di auspici, quasi dionisiache e bacchiche nella loro capacità di penetrare il pubblico attento e numeroso accorso alla manifestazione; la scenografia era scarna ma essenziale, gravida di suspence la recitazione, altamente drammatica ed estenuante, piena di simbolismo e ricca di pathos.
Era in pratica una metafora, anzi di più: un'allegoria/anagogia riguardante il periodo della Repubblica Partenopea del 1799, con accenni al sociale, ma soprattutto concernenti il ricorso all'antropofagia, al cannibalismo in un'era, un'epoca di ristrettezze economiche e di un certo degrado sociale. Solo due personaggi hanno riempito il palcoscenico: Janara e il gentiluomo, un giacobino cortese ed educato, dal linguaggio forbito e dai modi gentili che conquisterà Janara e le farà vivere da protagonista il vero e proprio rito del baciamano.
Janara, che in Napoletano vuol significare: "strega", "fattucchiera", è un personaggio complesso e non stereotipato, difficile da smontare e/o collocare in uno schema di "normalità ", ma è denso di fascino e di magia, satanica nell'aver catturato il giacobino e nel volerlo poi mangiare.
Il gentiluomo è anch'egli sofferente, cerca di prendere tempo per sfuggire alla morte "sicura", che poi "sicuramente" lo coglierà , inflitta da parte dell'affamata e triste, sofferta Janara, verace e passionale poveraccia della Napoli cannibale del '700; le scene sono ben congegnate e sul palco si parla un dialetto molto stretto, settecentesco, non sempre ben comprensibile, a tratti oscuro e purtuttavia vivace...
Si trattava del tema del sogno, di una visione filosofica della rivoluzione napoletana, che fallì per numerosi fattori, lasciando la gente misera ancora più povera, ancora meno abbiente che in precedenza, ed è appunto in questo periodo, in tale temperie che assurge il cannibalismo.
Janara assomiglia a un auruspice, a un druido, un sacerdote-satiro che compie vari rituali prima di cibarsi della carne della sua "preda", proprio il gentile giacobino: tra questi – come in un'iconostasi – la crudele megera prepara la tavola dando le spalle al pubblico. Janara si vede come in uno specchio, ed è come se fosse ammalata o invasata, riempita dal suo dio oscuro che ella stessa vorrebbe esplicitare essendone posseduta come per un'orgia, desiderosa come è – anche – di una maternità sofferta. Ciò è comprensibile dal racconto che durante la rappresentazione questa donna attua, in libera ispirazione al Cunto de li Cunti (o Pentamerone) di Giambattista Basile.
La plasticità dei corpi dei due attori, validi nel riempire la scena senza vuoti sostanziali, affonda nell'onirismo e nell'oscurità , come se si assistesse a un rito voodoo.
Condiscono e scandiscono altresì le fasi della piece, del copione presentato il giorno 2 ottobre ironia, ideologia, ghigni beffardi e ansia cosmica. I tempi lunghi e i temi attuali rapportati da "Il baciamano" si fondono in un unicum, in un calderone-crogiolo in cui risultano mescolati vari elementi di magia e di didascalica ossessione.
I ruoli contrapposti si susseguono gravi e alla fine strega e preda diventano una cosa sola, in un immaginario doloroso e straziante ricco di colpi di scena sgomenti e ansanti.