Assisto con pazienza al prepararsi del mio temporale; già da qualche sera l'umidità si
Condensa in vapori sempre meno inerti e una vaga luminosità violacea stinge la notte.
Mi sembra di essere tra quelle nubi che attingono vigore da tutto quanto traspira, di vederle nella lenta maturazione, rincalzate da un vaporoso fermento lievitante, di sentirle frusciare mentre vi si accumula l'immane potenziale elettrostatico.
Ieri sera un cupo brontolio si avvertiva in lontananza e il lampo velato irrorava umori tenebrosi rallegrandomi: l'ordigno è in pieno collaudo, lo so bene, anche se il mattino, nel suo grigiore asfissiante sconfessa le macchinazioni notturne e un'altra giornata andrà a caricare i condensatori.
La calma pomeridiana, la migliore, è il preciso segnale di quanto sta per scatenarsi, è tempo che mi avvii, ho già scelto un luogo per godermi in santa pace il temporale, e niente paura dei fulmini, la probabilità di rimanerci secchi è assai inferiore repentaglio cui ci espone l'andare in città .
Così come all'inizio di una rappresentazione teatrale le luci si smorzano per favorire l'immersione fantastica nella scena e tra le vicende che seguiranno, anche adesso, dai lontani fondali dove il buio si è accumulato per lo spessore del fronte, comincia ad agitare un gorgo che ha l'usuale destrezza di inghiottire la luminosità del giorno. In questa attesa dove tutto è dilatato, anche la mia sfera di attenzione aumenta, non è più circoscritta al riconoscibile prossimale, ma arriva a concepire la massima ampiezza distale.
I miei occhi sono avidi aspiratori dalla finestra visibile, incantati dal roteare del panorama che si affaccia e ricompone in un susseguirsi privo di fratture.
I piani nebulosi, spinti dalla violenza umorale di folate vorticose si accavallano e intersecano nella sferza del vento incontrollato e senza direzioni dominanti.
Per qualche minuto ho l'impressione che il fortunale vada a scaricarsi altrove, quando i torreggianti cumuli dove bianco, indaco e celestino non sono più separabili per l'intima commistione e lasciano filtrare il tondo disco di cinabro. Freddi tentacoli paglierini se ne staccano per colpire la distesa del trifoglio o la chioma silente dei pioppi, nette pennellate di luce fanno risaltare particolari insignificanti e invisibili che vivono per pochi momenti sotto l'intensa concentrazione, ma poi lo scrigno luminoso viene lentamente rinchiuso e lo stormire crepitante della prima raffica giunta al suolo, lacera una impossibile bonaccia e dà inizio all'evento. Ora il turchino è insistente e vivo, gioioso nel suo procedere barcollante e disordinato si materializza con polveroso vortice, un fazzoletto di plastica viene strappato dal cumulo di rifiuti e catturato dal fazzoletto bizzoso, si innalza come per magia fino a che la forza traente non lo espelle, stanca di quel drappo artificioso e sudicio, lo lascia in pasto all'orda disordinata che se lo strazia come farebbe una schiera di diavoli malebranche, lo perdo dietro il filare dei pioppi incurvati fino allo spasimo, in balia di una sventagliata precipitosa. Accanto al sibilo lacerante che squassa e flette snervando per crescente progressione le parti vegetali più esposte, secchi e distinti, nel rimbombo diffuso, mi arrivano gli schianti dei rami più deboli laddove una giuntura particolarmente compromessa o infrollita dal lavorio demolitore di qualche larva, non regge alla veemenza trainante della bufera. Talvolta è il terreno che non fornisce un ancoraggio sufficiente ed è tutta la pianta ad essere sradicata, così finiscono dei pioppi messi a rinforzare inutilmente, la ripa di un fossato.
Già sbilenchi, franano per mancanza di appoggio adeguato e nelle grosse zolle che si ribaltano verso l'alto, spicca una ragnatela biancastra di tozze radici disalveolate. Le foglioline dei salici, nel loro tremolante argenteo si mutano in un branco di avannotti folli di terrore che all'unisono si slanciano luccicanti fuori dall'acqua per sfuggire un pericolo mortale, mentre i verdi rami che portano un carico fattosi vela tanto difficoltosa da sostenere, gemono sinistramente ( o destramente ? ) nelle manovre più gravose. Il largo fogliame dei platani paga come tributo della sua robustezza e resistenza l'aggressione più marcata e asfissiante; raffiche accanite tormentano il picciolo attorcendolo fino a che non si separa dal ramo con uno strappo che sa di liberazione; nel lungo rettangolo dove cresce la fienagione, alle prime sventagliate che giocavano con l'erba impartendovi ritmiche ondulazioni marezzanti, sono subentrati frangenti imbizzarriti e l'effetto è di un rullo sfuggito dalla guida che schiaccia al suolo senza costrutto ove gli garbi rotolare. Ben coscienti del rischio gli animali attendono tra i ripari usati, solo una manciata di passeri si lascia trasportare verso il paese, più che volare in forza dei loro battiti, sembrano bambini incoscienti e ridanciani nel vortice di una corrente che prima li sostiene e infine li potrebbe scaraventare sul fondo.
Di ben altro spessore è il gioco delle cornacchie, le uniche, forse, ad avere intelligenza e spirito per sfidare l'arrembante carosello dei venti e trarne piacere. Finalmente liberate da un peso e da una struttura che ne limitano le potenziali capacità di volo si affidano all'aria con la perizia di vecchi bucanieri che sanno come affrontare il mare e lo sfidano per il gusto di provare a se stessi la loro bravura. Le folate scompigliano il piumaggio, flettono le remiganti, incurvano le timoniere in manovra al limite, ma il roco gracidio che mi arriva anche lui scarrocciato dal cielo, è un ronfare gorgogliante di soddisfazione.
Le cornacchie fluttuano, volteggiano, si impennano, si increspano ponendosi contro la sferza poi, lasciandosi risucchiare nelle ventate, acquistano rapidità mantenendo la rotta con agili variazioni di assetto così cabrano lungamente fino ad uscire dai vortici più potenti e ritornare al punto di partenza controventando di bolina in zona favorevole. Nel gruppo si creano coppie regalanti che si esibiscono nelle manovre più ardite o trii che, lungi dal competere stupidamente, si sostengono e incoraggiano con esclamazioni gutturali e sguardi di consenso, né mancano solisti isolati che scalpitano in una crisi di narcisismo represso e berciano al mondo la loro vanità frustrata. Le cornacchie si godono questa libertà piena prima che incomincino le precipitazioni con la spontaneità fanciullesca di chi non si lascia mai condizionare e pian piano si allontanano inseguendo le correnti migliori, frombolando nel cielo così a lungo desiderato.
Poi, col brontolio che varia fino a stemperarsi in una inesauribile, orrenda eruttazione ribollente e un ritorno alla calma ancor più minacciosa, le prime gocce di pioggia. Sono goccioloni pesanti, radi, come se le nubi, dopo esserseli così lungamente nutriti non vogliano abbandonarli al loro destino; ma le leggi della fisica non conoscono eccezioni affettive, sarà dunque la gravità a stanare dalel capaci e fredde stive di condensazione il prodotto tanto lumacone a maturare. La stagionata polvere della stradina reagisce ai primi arrivi con impercettibili sollevazioni, fungolini che richiamano gli effetti di una carica esplosiva con lo sbuffo che le tiene dietro. Il plop sordo della goccia è seguito da una nuvoletta che si dissolve lentamente, mentre altre se ne formano di continuo e un odore che non riuscirei a definire, ma che riconoscerei tra mille, si espande.
Questa prima acqua, lungi dall'essere balsamica per la terra, ne esaspera ancora di più l'aridità e certi aromi in essa trattenuti, i più aspri e nervosi, se ne liberano con uno strattone, quasi temessero la prigionia umida dopo quella secca. Una fragranza insolita arriva alle narici, uno stimolo graffiante e corrosivo dà un pizzicore alle mucose su cui scorre durante l'inalazione, trasferendo su di esse un'arsura improvvisa.
Ma il picchiettare rado si trasforma in un martellio crescente e la sensazione fastidiosa svanisce.
Sulla terra la polvere, gelosa di una lievità ottenuta dopo mesi di paziente insolazione, trattiene ancora dentro di sé la pioggia così che niente ancora appare bagnato, poi si condensa in piccoli grumi grigio-nocciola, infine comincia a sfarinarsi in una zappetta marrone entro cui si incidono i primi canalicoli di deflusso.
Su nel cielo che ha perso ogni profondità , sembrano aperte le proverbiali cateratte e tra un rimpallo di tuoni e lo scaricarsi rabbioso della folgore, il temporale acquista uno spessore3 acustico assordante.
Io sono ammaliato dalla forza spezzata dei lampi, dal loro espandersi subitaneo, ma ancora percepibile in tronconi, dal loro incendiarsi come micce a rapidissima combustione, su per ragnatele scattanti, inspiegabili. Mi affascina il furore di questa dimostrazione energetica: il bagliore della scarica che acceca, l'alone rosso diabolico che vi si sovrappone e l'espansione violacea che accende la nube dall'interno, facendola risaltare per brevi istanti di una profondità tenebrosa e di riflessi luciferini. Mi piace correlare l'andamento tortuoso del balenio con l'immagine sonora che percuote l'aria appena dopo; riconosco il rombo squassante della scarica principale e i rotolanti borbottii dei rami secondari che si allontanano verso altre direzioni. La sequenza degli scoppi è anch'essa segmentata, come se la partitura esigesse uno staccato di portamento e ha l'effetto di creare una persistenza sonora martellante.
In questa generale perdita di prospettiva tutto diventa un muro liquido massiccio, con lo scudiscio della pioggia che cambia continuamente angolo di incidenza, mentre nelle pozzanghere, che si sono originate in un momento, la violenza dello scroscio è tanto marcata che ogni goccia in arrivo solleva effimere aureole, veli di medusa già sciolti prima di essere ammirati.
Nel ruscelletto che si fa strada seguendo la pendenza, una formica indomita col suo minuzzolo inchiodato alle mandibole, annaspa sballottata dal nuovo imprevisto, ma ha il carattere e la caparbietà per uscire indenne anche da questa avventura.
Una nuvolaglia biancastra e maligna si stacca dal grigiore cupo del cielo, il suo carico è ancora più laborioso e affilato; all'inizio non ci si accorge che tra il picchierellare
Continuo si è inserita una nuova tonalità e nemmeno si notano, mimetizzate nella fiumana, le piccole perline ghiacciate, ma in un attimo tutta si converte in grandine crepitante che picchia duro su ogni superficie, rimbalzando sulle più sode o sfondando le più sottili. Il mais di un campo già avanti nella maturazione è letteralmente bombardato dalla gelida sassaiola dove, per agglutinazione, alcuni chicchi si sono fatti mostruosi. In tre minuti delle floride piante non restano che fusti smozzicati e foglie stracciate, persino le pannocchie in via di formazione pendono innaturalmente dalle ascelle che le accudivano. Lo strabello è già sommerso dagli acini e ancora ne arrivano, come se cassoni di ghiaia venissero contemporaneamente scaricati, così gli ultimi saltellano e rotolano tra i primi col rumore secco di biglie di vetro che si scontrano. Uno di questi mi arriva ai piedi, lo raccolgo per soppesarne la gelida struttura e, prima che mi si sciolga in mano, lo spezzo con un morso.
Nei due emisferi sono nettissimi gli anelli di accrescimento, come tutti i suoi confratelli ha fatto yo-yo nella nube aumentando di volume ad ogni ascensione finchè nessun vento l'ha più sostenuto ed è piombato a terra, minuto, inconsulto, micidiale proiettile.
Le grandinate pericolose sono proprio così: un attimo e due boati assordanti scaricano la loro potenza come se avessero il turbo, e si rimane allibiti di quanto cambi la campagna in un intervallo tanto breve. Altra stupefacente caratteristica è che accanto al campo radicalmente devastato, il confinante se la sia cavata senza un graffio, senza che ci sia una logica deterministica a offrire spiegazione.
Lo spettacolo non ha intervalli, un evento scalza l'altro, ecco l'ennesima sventagliata poi una diminuzione netta dell'intensità della pioggia, l'erba e le piante che si intravedono sono un po' ammaccate, ma sbaglierei se pensassi alla fine delle ostilità . E non è nemmeno un armistizio, visto che di acqua continua a scenderne, si sono esaurite le prime ondate e il temporale rifiata. E rifiata anche una gazza, ma priva della solita baldanza. Più che un uccello sembra un pupazzo appena tolto da un ammollo sgradito; la coda, poi, con tutto quello che ha dovuto sopportare è solo un'estremità vizza con le barbule senza più raccordo uncinante, ce ne vorrà di sprimacciare, stasera.
A passo di carica riprende a piovere con estrema violenza, ancora un muro, talmente fitte le bordate. Con la fantasia non è più il rustico casotto a proteggermi nella stagione dei monsoni di mare, ma un'immensa foglia di banano, e lo Zambesi, non la roggia tracimante mi ha tagliato fuori dalla civiltà . Impressioni di letture infantili affiorano coi contorni incerti di una landa che si sta adagiando nella nebbia. Ma oramai siamo alle ultime esplosioni, i brontolii, pur essendo cupi e possenti, sono di un leone pago che si ritira nella savana, lo avverto col corpo, la dimensione naturale ridona una sensibilità che l'istinto rende infallibile.
Le ultime gocce e quasi d'incanto anche il cielo ritorna mosso e profondo, la schiarita forza come un cuneo l'ineffabile pomposità delle nubi acquietate, ora lungamente distese verso nord. La distanza è palpabile e un nitore bronzeo si sgrana fino alle montagne tornate per qualche ora visibili grazie al vento e al crollo dell'umidità che stagnava da settimane. Ma già dai rimasugli di grandine quasi disciolti, nuovi vapori si alzano, come esilissimo fumo di sterpo appena inumidito che brucia stancamente.
Le correnti che ancora spirano in quota sospendendo le ultime goccioline in un limbo indeciso tra una seconda evaporazione o la precipite discesa a terra e questa combinazione col sole molto occidentale offre un trastullo variopinto.
Certo, non è come all'isola, quando in un Tirreno ancora corruso, schiaffeggiato da un vento ribelle, su un lungo orizzonte carnicino e in alto, verso il turchese più puro del cielo, sorsero come per incanto due arcobaleni in due distinte posizioni di una perfezione cromatica esaltante, ma quel tronco d'arco un po' annebbiato dove i colori si stemperano e confondono tra loro, è in egual modo apprezzabile. Dalle siepi e dalle chiome estenuate lo sgocciolio si fa sempre più rado; agguanto una mora tra i rovi, fresca, asprigna, granata, ma nella manovra urto un ramo e l'aspersione tonificante è immediata. Tra una boccetta procacciata così, uno spruzzo e lo sfrigolio dell'erba umida, mi sto bagnando molto di più ora.
Ricompaiono in volo le rondini e i balestrucci che ne erano stati allontanati, la caccia che fanno agli insetti è furibonda, molto è il tempo perduto da riguadagnare.
Una ragnatela tirata a lucido come gli ottoni di una nave scuola è scesa dal piano nobile per abbellire la serata a un arbusto solitario e malinconico, era un secolo che non ne trovavo, il guizzo smeraldino mi conferma l'ottimo stato di salute.
Le grandi lumache dal guscio screziato e lievemente inciso cominciano a sbucare tra la vegetazione più esterna delle siepi. Risvegliate dai torpori estivi, ringalluzzite dalle acque pluviali e senza temere disidratazioni, si allungano sul piede vischioso deponendo fettucce di bava luminosa, mentre gli occhietti peduncolati si distendono e ritraggono con la vigile lentezza di una muscolatura certo potente, ma incapace di scatto. Ne raccolgo una e subito si raggrinzisce rincattucciandosi nel nicchio. E' un movimento lungo, animato da correnti ondulate, le parti esterne si assestano e rimodellano incastrandosi morbidamente con invaginazioni ipnotiche. Occorre qualche minuto di tranquillità per assistere al fenomeno inverso, un liquido rifiorire corporale fino a che il dorso reticolato, la testolina incerta e le quattro appendici sensoriali si ricompongono per intero. Il gioco mi ricorda le lingue di suocera che si trovavano sui banchetti della sagra, colmi di mercanzie e balocchi poco pregiati, ma tanto invitanti per colori ed eccezionalità di acquisto. Depongo la chiocciola vicino ad un cardo solitario, tra le malve e qualche robusta cicoria mangiucchiata, presentandole un gramo futuro, quando i razziatori incalliti la imboscheranno con infinito amore, non ne dubito, tra le altre e, con identica tenerezza, la bolliranno, viva, per il sacrosanto diritto a mangiar nostrano.
Non voglio certo stigmatizzare l'esigenza di nutrici anche di lumache, ma è la concezione rapace ed utilitaristica del rapporto che i più hanno verso ciò che si trova nei campi a imbufalirmi. Infangato a dovere approdo al paese e trova la via allegramente sommersa da una chiassosa distesa al caffelatte. Chi ce la fa, e sono i ragazzi, se la spassa con gambaloni e bici mulinanti goccioline dai raggi; chi non ce la fa, e sono i grandi con troppo umido nel focolare, elargisce sincere benedizioni dall'esecutivo centrale giù fino all'ultimo assessore agli impopolari travagli.
Io ho un attimo di perplessità sul da farsi, poi, non conoscendo il trucco di camminare sulle acque, mi avvio per l'ultimo tiepido pediluvio, stasera, i piedi dovrò solo risciacquarli.