
Mantova. In quei "dieci giorni che sconvolsero il mondo", nell'Ottobre del 1917, si giocarono le sorti dell'arte e dell'autonomia di pensiero nella Grande Madre Russia. A cento anni dall'Ottobre Rosso, in Tenda Sordello con Marcello Flores si è fatto il punto sul complicato rapporto tra intellettuali e Rivoluzione russa, tra attese e disillusione o conferme forzate. Se il "compagno governo" di Majakovskij mostrava il gustoso orizzonte di un futuro libertario di autodeterminazione, i poemetti "I dodici" e "Gli sciti" del grande simbolista Aleksandr Blok introducevano elementi perturbanti all'interno della narrazione bolscevica, esaltata sì come sublimazione del desiderio di rivalsa nei confronti dell'antico regime, ma al tempo stesso presentata sin dagli albori come totalizzante. Nei lavori di Blok alla componente dionisiaca di aggiungeva altresì una profonda connotazione mistica (dodici sono gli apostoli che seguirono Gesù, e Gesù stesso appare dinanzi alle Guardie Rosse senza essere nitate), ragione per cui la sua opera non fu mai vista di buon occhio dalle massime cariche bolsceviche, in un periodo in cui persino il fruscio di una foglia poteva suonare sospetto. Sono gli anni dell'opposizione pubblica di Kamenev e Zinov'ev all'insurresione ottobrina, gli anni in cui Gorkij - futuro cantore dell'epopea staliniana - lancia l'allarme sull'efferata crudeltà del proletariato russo, portato di un rancore mai sopito e serbato per la durezza di trattamento ricevuta quali servi della gleba; gli anni in cui Mandel'Å¡tam, nella poesia "A Cassandra" rivolta all'amica Achmatova, preannuncia la fine di ogni illusione. "La rovina sono i burocrati (bolscevichi)", avrebbe ancora detto Blok in occasione dell'84esimk anniversario della nascita di PuÅ¡kin, ucciso non in duello da D'Anthès, ma "dalla mancanza d'aria di quel periodo", la stessa che si sarebbe respirata dopo il rovesciamento del monolite zarista. C'è il seme della comprensione della chiusura da parte del regime sovietico a ogni forma di arte e poesia. Ne "Il paese dei banditi" Esenin avrebbe scritto: "Ho rinunziato a
molte cose (...) e specialmente allo stato. E' tutto (...) un accordo di bestie di colore diverso". Proprio il suicidio di Esenin troncherà ogni speranza di riscatto: da quel momento in poi si parlerà, difatti, di letteratura sovietica. "E' stata una generazione che ha semplicemente dissipato i suoi poeti", avrebbe detto il grande linguista Jakobson, chiosando la frustrazione del sogno della bellezza di salvare il mondo.