
Soltanto i poeti possono adempiere al compito di giungere sino all'abisso, e capovolgerlo nella libertà. Unici speleologi chiamati a scandagliare gli incroci della svolta, soprattutto nel tempo della povertà. Fu così che Heidegger, in una conferenza del 1946, tentò di rispondere al dilemma lanciato da Holderlin in "Pane e vino". Ed è stato così che Juan Gelman, in un'epoca che da lungo tempo si trascina dal nulla alla più assoluta povertà, ha tentato di andare alla realtà e farla diventare "altra" con la poesia. Argentino di Buenos Aires, figlio di immigrati europei, Gelman, scomparso a Città del Messico lo scorso 14 Gennaio, si dedica anima e corpo alla poesia sin da ragazzo. Fin quando la giovinezza sua e di molti altri suoi compagni non viene lacerata dalla cicatrice indelebile del "Proceso", la terribile dittatura militare instauratasi in Argentina dal 1976. All'altare della Reorganizaciòn Nacional Gelman vedrà sacrificata le vite e le speranze del figlio Marcelo Ariel e di sua nuora: soltanto l'ultimo tassello infame regalatogli da una giunta militare che non gli aveva mai perdonato la militanza politica, nella sinistra comunista prima e nel fronte dei Montoneros poi, laddove conobbe e pianse l'addio dell'amico Rodolfo Walsh. "Si passa da innocente a colpevole in un solo secondo", avrebbe poi scritto nella splendida raccolta "Valer la pena", tradotta in Italia dall'editore Guanda. La pena da scontare era quella di un pastore errante nel fremito incessante dalla Ville Verte a Madrid, passando per la New York cantata da Garcìa Lorca, e per un rapido ritorno in patria al fine di documentare l'orrore del dispotismo militare e neoliberista, fino al definitivo approdo messicano, lì dove a distanza di qualche anno avrebbe assistito, con l'amico Montalbàn, all'aurora del movimento zapatista . Con la possibilità di contemplare da lontano quella che Malraux aveva definito "la capitale di un Impero mai esistito", e con l'unica speranza di attendere il miracolo poetico, dopo averne plasmato la materia. Perché "non c'è giustizia fuori, e lui cerca ciò che non è". E' la poesia che Gelman ha tentato sempre di interrogare all'interno della sua vasta produzione, come l'aruspice scrutava il futuro servendosi delle interiora animali. Fino agli abissi dello sconosciuto, fino a conservar memoria di ciò che non è ancora. "La tua assenza è ciò che non sarà, così è il futuro". Quella poesia che Cortazar definì un sentiero tutto curve e salite, ma fitto di speranza, e che Gelman fa affiorare solo dopo aver interpellato le epoche siderali, ma vicine nell'essenza, dei Dante e dei Catullo, come dei Kavafis e dei Celan e fino al "compagno" Cernuda, colui che attinge dai Baudelaire, Rimbaud e Salinas per scrivere "al futuro". L'abisso dell'orrore, dell'autoritarismo in uniforme e della speranza desaparecida è quello visitato da Gelman, rivoltato nel disinganno e nel risveglio imprescindibile della coscienza, nell'impagabile consapevolezza di essere uomini. "La poesia", recita nel poema "El tajo", "non fa accadere nulla", citando Auden. Forse perché la realtà è anche ciò che poteva essere, e non fu. E in Gelman molto accade nella poesia.