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Strasburgo. Sono state approvate le nuove regole sul diritto d'autore. Il via libera dall'aula di Strasburgo all'accordo provvisorio sul rispetto del diritto d'autore in Internet è passato con 348 sì, 274 no e 36 astenuti. Le norme, che includono salvaguardie alla libertà di espressione, consentiranno a creatori ed editori di notizie di negoziare con i giganti del web. Il processo legislativo per il Parlamento Europeo, iniziato nel 2016, si conclude così dopo tre anni di lavoro. Spetterà ora agli Stati membri, nelle prossime settimane, dare l'ultimo ok formale.
La riforma, proposta dalla Commissione Europea, era ritenuta necessaria a Bruxelles per aggiornare una direttiva del copyright del 2000, quando l'Internet era agli albori. Oggi, dice la Commissione, il 56% degli utenti legge articoli giornalistici senza pagare alcunché. Anche musica, foto, testi protetti su copyright circolano gratis sulle piattaforme di giganti come Google, Yahoo, Facebook senza ricevere alcun compenso, mentre queste società vendono a peso d'oro e per fini pubblicitari il traffico generato sui propri siti. Questi giganti di internet diventeranno ora direttamente responsabili dei contenuti caricati sui loro siti. Con la riforma, infatti, aumenteranno le possibilità dei titolari dei diritti, in particolare musicisti, artisti, creativi ed editori, di negoziare accordi migliori sulla remunerazione derivata dall'utilizzo delle loro opere diffuse sulle piattaforme web.
Gli editori di stampa acquisiscono inoltre il diritto, facoltativo, di negoziare accordi sui contenuti editoriali utilizzati dagli aggregatori di notizie. In altre parole, gli autori di un contenuto editoriale veicolato dalle piattaforme online (per esempio Google News) devono essere remunerati dai propri editori, a propria volta pagato per i contenuti concessi agli aggregatori digitali. Sono esentate dalla normativa le società con meno di 10 milioni di euro di fatturato l'anno e 5 milioni di utenti mensili, le enciclopedie online come Wikipedia, le piattaforme open-source, i siti di musei, biblioteche, materiali didattici. Nessuna "link tax", ovvero gli utenti saranno liberi a fini privati di scambiarsi gratuitamente link o brani di articoli di loro interesse. Non toccati neppure i meme e le animazioni satiriche in formato Gif, ma il risultato finale non è scontato.
La nuova direttiva obbliga le piattaforme di aggregazione e i singoli siti web a rinegoziare i loro accordi. Tuttavia, mentre Google o Facebook sono immensamente potenti, il singolo quotidiano che deve a loro il 70% o l'80% del suo traffico non ha lo stesso potere di contrattazione, è molto più debole e all'atto pratico potrebbe essere bandito dall'aggregatore e di conseguenza perdere utenti e denaro. Gli unici che potrebbero realmente parlare alla pari con le piattaforme sono i grandi gruppi editoriali dei singoli paesi. Viene da sé che la legge sul copyright può arrecare seri danni alle piccole imprese. In Europa esistono già gli effetti di situazioni analoghe: in Spagna non si è trovato l'accordo, Google News è stata chiusa e ha causato un danno immenso nei confronti di quei piccoli siti che ne beneficiavano. In Germania gli aggregatori citano solamente i titoli e alla lunga sono sopravvissuti solo i grandi giornali.
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Bruxelles. E' arrivata la smentita dal capo della comunicazione della tv tedesca sulla dichiarazione lapidaria del commissario europeo al bilancio Gunther Oettinger, "I mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto", che sembrerebbe essere nata da un'errata valutazione del giornalista che ha pubblicato la frase via tweet. La dichiarazione, smentita poche ore dopo dallo stesso Oettinger, è piombata nella già pesante crisi politica, finanziaria ed istituzionale che sta investendo in questi giorni l'Italia e la sua classe politica. Immediata e immaginabile la pioggia di reazioni che sono seguite a quel post. "Pazzesco, a Bruxelles sono senza vergogna. Io non ho paura", ha annunciato via twitter Matteo Salvini. Non da meno il M5s in una nota: "Chiediamo al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker di smentire immediatamente il Commissario Oettinger. Le sue parole sono di una gravità inaudita e sono la prova delle evidenti manipolazioni che la democrazia italiana ha subito negli ultimi giorni". Lo stesso Juncker, informato di questo commento sconsiderato, ha chiarito la posizione ufficiale della Commissione: "Compete agli italiani e soltanto a loro decidere sul futuro del loro paese, a nessun altro". Indignazione anche per il Pd, per bocca del segretario Maurizio Martina: "Nessuno può dire agli italiani come votare, meno che mai i mercati. Ci vuole rispetto per l'Italia". Più diplomatico il commissario agli affari economici Pierre Moscovici: "Gli italiani hanno bisogno di scegliere il loro destino ed avanzare con le loro regole democratiche verso il destino che si sceglieranno e allo stesso tempo di restare nell'ambito delle regole comuni e nell'euro, che è positivo per tutti noi". Dopo la debacle delle consultazioni, quindi, l'apprensione sulla situazione politica italiana resta e sembra contagiare un po' tutti gli ambienti.
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Berlino. Angela Merkel ha vinto, come ampiamente preventivabile sulla scorta dei sondaggi pre-elettorali, ma ancora una volta sarà costretta a tessere nuove alleanze per assicurare la stabilità governativa del suo paese. La Cdu-Csu della Cancelliera uscente ha totalizzato il 32,9% delle preferenze, in una tornata da boom partecipativo, con il 76,2% degli aventi diritto che ha votato alle urne. Un risultato che ha confermato la buona salute del sistema di democrazia partecipativa tedesco, a fronte della rottura di un equilibrio sociale che ha portato alla nascita di rilevanti sperequazioni economiche in seno alla popolazione tedesca. E se proprio un riflesso di questa crisi è riscontrabile nell'esito elettorale, esso va ricercato nell'adesione pressoché monolitica degli elettori (il 95% dei votanti) ai sei partiti maggiori del paese: oltre ai Cristiano Democratici, dunque, Spd - uscita piuttosto male dalle urne -, Linke, Verdi, liberali FDP e l'estrema destra dell'AFD. Non più 4, dunque, ma 6 i partiti che raggiungono il Bundestag, con lo spaventoso exploit di Alternative Fur Deutschland, che con il 12,6% si erge a terza forza politica della Germania. Ed è proprio il netto spostamento a destra uno dei dati pregnanti di queste elezioni politiche. AFD - che in Sassonia è risultato il primo partito - sottrae seggi sia ai Cristiano Democratici - che perdono il 15% rispetto all'ultima tornata - che ai socialdemocratici (-16,9%), il cui flop - persino nel feudo bavarese - fa ancora più rumore se si pensa che partito di Martin Schulz ha ottenuto il peggior risultato elettorale del secondo dopoguerra, mai realmente in corsa per impensierire anche solo timidamente la Merkel. La quale, dopo il "niet" della SPD ad entrare nuovamente nella Grosse Koalition, dovrà sondare il terreno con i Verdi - che sembrano pronti ad entrare nell'alleanza di governo in cambio di concessioni in materia ambientale - e soprattutto con i liberalconservatori di FDP, che insieme ad AFD rappresentano la verà novità del fosco panorama politico di Germania, il cui asse è mai come oggi pericolosamente orientato a destra. La Linke, nonostante un incremento dell'11,3%, non basta a mutare il segno dello spoglio, specie se i Verdi faranno da traino alla quarta epopea amministrativa della Cancelliera. Sono i frutti, non casuali, dell'incrinatura del welfare state che ha portato ad una nuova, cocente spaccatura nel paese, a nemmeno 30 anni dalla sua riunificazione.
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Londra. Alla fine l'ipotesi hung parliament, pur profilata nelle ultime settimana ma senza attribuirle il meritato credito, è diventata realtà: le elezioni politiche in Gran Bretagna certificano la débâcle di Theresa May, la quale, pur vincendo la corsa con il leader del Labour Party Jeremy Corbyn, lo fa con uno scarto ridottissimo, tale da precluderle la maggioranza assoluta a Westminster. Un vero e proprio "shock", come lo ha definito il Guardian, un autentico "disastro" a detta del Financial Times: nonostante il vantaggio numerico sugli avversari, i Tories della premier uscente raggiungerebbero appena i 318 seggi, ben 12 in meno di quelli ottenuti alle politiche del 2015, ben al di sotto della soglia necessaria per garantire una granitica e fluida governabilità. Una colata a picco, dunque, specie se raffrontata con le previsioni della vigilia e con la decisione della stessa May di andare ad elezioni anticipate nella convinzione di poter sbancare la tornata. Chi avanza è proprio il Labour di Corbyn, che supera i 260 seggi guadagnandone così oltre 30 rispetto alle ultime consultazioni, mentre crollano il National Scotish Party (-19 seggi) e soprattutto l'Ukip orfano di Nigel Farage - uno dei più accaniti promotori della Brexit - che ottiene appena l'1,8% delle preferenze degli elettori e viene così estromesso dalla Camera.
Il risultato elettorale consegna dunque una Gran Bretagna assai più fragile e precaria di quella andata alle urne. La notizia non è delle migliori, stante il delicato momento nel quale versa il paese, che deve gestire la procedura di divorzio dall'Unione Europea in scadenza nel 2019. L'unica strada percorribile è quella di un'alleanza, probabilmente con i Liberaldemocratici - ai quali dovrebbero andare 12 seggi - che tuttavia hanno già annunciato di non voler formare alcuna coalizione, memori dell'esperienza post 2010 che procurò loro una netta sconfitta elettorale. Ecco dunque che i Conservatori hanno già avviato i contatti con l'Ulster Unionist Party, i protestanti nordirlandesi, anch'esso conservatore e che potrebbe assicurare una decina di seggi: a solo titolo di appoggio, tuttavia, e non all'interno di una coalizione. Remota allo stato anche l'ipotesi di dimissioni della May, la quale aveva paventato una simile possibilità nel caso in cui avesse perso almeno sei seggi.
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Parigi. Emmanuel Macron è il più giovane presidente della storia della Francia repubblicana. Il 39enne leader del movimento centrista "En Marche!" si è aggiudicato il ballottaggio di domenica 7 maggio raccogliendo il 65,5% delle preferenze, sconfiggendo così piuttosto nettamente la candidata del Front National Marine Le Pen. Nonostante i numeri mostrino un astensionismo in crescita, pari al 25,44%, il dato elettorale fornisce un campione di rappresentatività notevole per il nuovo signore dell'Eliseo. Alle urne si sono recati oltre 31 milioni di elettori, a fronte dei 47 milioni e mezzo di aventi diritto.
Al netto dell'analisi geografica dei flussi, appare interessante valutare come si sono mossi quegli elettori che, al primo turno, avevano accordato le loro preferenze ai candidati sconfitti. In particolare, nettamente schierati i sostenitori di Fillon, che hanno scelto Macron al ballottaggio. Meno polarizzati gli elettori di Mélenchon, che si sono divisi fra il sostegno al neopresidente e la scheda bianca.
La maggioranza relativa di Macron (elaborazione Les Decodeurs - Le Monde)

Una mappa dell'astensionismo elaborata da Les Decodeurs
Un "no" al populismo. I principali quotidiani europei hanno salutato con favore l'elezione a presidente della repubblica di Macron, specie se considerata alla luce della sconfitta degli "xenofobi", ossia del Front National, come scrive Libération, "che restano pur sempre forti, minacciosi e attivi". Per Marine Le Pen i risultati del ballottaggio si sono rivelati inferiori rispetto agli exit-poll della vigilia, specchio delle attese elettorali, che attestavano il suo partito intorno al 40%. Certo è che la polverizzazione dell'elettorato verificatasi al primo turno, e salutata dalla leader dell'estrema destra come il campanello di morte del vecchio ordine politico, non ha trovato terreno fertile nel ballottaggio, laddove le scelte dell'elettorato attivo hanno premiato una ricomposizione del mosaico politico-elettorale. Si tratta, al momento, di dati ancora parziali, in attesa di essere confermati dalle elezioni legislative in programma l'11 ed il 18 Giugno, alle quali la Le Pen si presenterà non più come mina vagante ma come guida dell'opposizione al blocco di potere partorito dalle presidenziali.
Chi è Macron. Il neopresidente è uscito dall'Ecole Nationale d'Administration ed è subito diventato ispettore fiscale presso il dicastero delle Finanze. La svolta avviene con l'elezione di François Hollande, di cui Macron diviene consigliere politico, prima di ascendere al segretariato generale della Presidenza e soprattutto, nel 2014, al Ministero dell'Industria e Finanze del governo Valls, fautore della controversa e criticatissima Loi Travail. A lui toccherà ora avviare le consultazioni per la scelta del nuovo Primo Ministro e la formazione dell'esecutivo. In attesa delle elezioni legislative, che potrebbero ancora una volta cambiare il volto politico della Francia.
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Istanbul. Sebbene i risultati ufficiali non siano ancora stati resi noti, la commissione elettorale suprema (YSK) ha confermato la vittoria del "Sì" nel referendum costituzionale tenutosi in Turchia domenica 16 Aprile. La consultazione elettorale è stata voluta dal presidente Recep Tayyip ErdoÄŸan per corroborare con la base popolare la profonda riforma dell'assetto politico del paese dopo il fallito golpe dello scorso 15 Luglio. La revisione della carta fondamentale, a favore della quale si è espresso, secondo le fonti ufficiose, il 51% degli aventi diritto, consiste in 18 emendamenti al testo costituzionale, molti dei quali contrari allo spirito ed ai principi supremi, che mirano ad ampliare le prerogative del Capo dello Stato, disegnando così un sistema presidenziale forte con una decisa svolta in senso autoritario. Questo disegno politico-legislativo, unito ai fattori di crisi che da tempo minano dalle basi la stabilità del paese, ha incrinato ancor più il già precario rapporto della Turchia con l'Europa, contro la quale è stata costruita buona parte della campagna elettorale dell'AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo guidato da ErdoÄŸan e sostenuto dai nazionalisti del MHP. Il progetto di integrazione europea, pilastro della politica turca all'alba del nuovo millennio, sogno inseguito sin dalle prime rivendicazioni anti-ottomane, è naufragato sotto i colpi dell'amministrazione ErdoÄŸan e dietro la spinta di alcuni leader occidentali poco disposti ad allargare l'orizzonte dell'Unione cristiana ad un paese di tradizione arabo-musulmana. Contrasti che, tuttavia, non hanno impedito a molti capi politici del continente un sostegno aperto al "Sultano", l'appoggio incondizionato da parte degli USA e la sottoscrizione di accordi a dir poco disumani come quello sulla regolamentazione del flusso dei richiedenti asilo. Al prevedibile conflitto su scala continentale si sono poi uniti i problemi generatisi sul versante interno, da soli capaci di ribaltare la costituzione materiale, quali la mancata armonizzazione alla normativa comunitaria e internazionale, il graduale accentramento del potere nelle mani del Presidente - con la contestuale e progressiva erosione del pluralismo democratico - , l'islamizzazione reazionaria dell'AKP in senso nazionalista e le alleanze con la destra conservatrice, e la continua discriminazione verso i curdi turchi: profili problematici rispetto ai quali l'Europa ha difficilmente mosso un dito, ponendosi in tal modo su un piano di complicità con un governo che si appresta a diventare regime anche da un punto di vista formale.
La riforma costituzionale approvata consentirà al Presidente, eletto a maggioranza, di nominare i propri uomini al Governo, disponendo così di totale arbitrio in materia legislativa ed amministrativa. Ciò nonostante, la vittoria del fronte del "Sì" mostra le sue crepe sin dall'attribuzione delle preferenze. Istanbul, vero feudo dell'AKP, ha votato "No", così come la capitale Ankara e Smirne. Il Partito Popolare Repubblicano (CHP), principale partito di opposizione, ha inoltre presentato ricorso contro la decisione dell'YSK di considerare valide anche quelle schede che non riportavano il timbro delle commissioni di seggio, chiedendo così di cassare la consultazione. In un rapporto pubblicato da poche ore, anche l'OSCE ha sostenuto che il referendum non ha rispettato la soglia minima dei criteri stabilita sul piano internazionale, evidenziando gli aspetti critici nella campagna referendaria, nel contesto legale e, appunto, nelle decisioni della Commissione elettorale suprema. Il quadro politico che si sta delineando in Turchia è tuttavia il portato di una escalation che si è giovata anche del silenzio complice delle istituzioni comunitarie: appare, dunque, piuttosto difficile che i rilievi mossi sulla legalità del contesto elettorale possano scalfire una vittoria, sia pure risicata, pronta a cambiare in maniera irreversibile il destino del paese.
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Amsterdam. L'exploit tanto atteso, alla fine, non c'è stato, e nemmeno la temuta riscrittura del quadro politico europeo prospettata dall'Ispi: Geert Wilders, leader e padrone del populista e xenofobo PVV (Partij voor de Vrijheid), non riesce nell'impresa di sopraffare in volata la destra liberale ed esce sconfitto dalle elezioni politiche olandesi. La tornata 2017 va a Mark Rutte, premier uscente e leader della destra liberale VVD (Volkspartij voor Vrijheid en Democratie), che conferma così le anticipazioni fornite alla vigilia dai sondaggi dell'istituto I&O Research. Si è trattato, a conti fatti, di una delle partecipazioni elettorali più sentite degli ultimi anni. Alle urne si è infatti recato l'82% degli aventi diritto, con un aumento di otto punti percentuali rispetto alla tornata del 2012. Il dato dell'affluenza certifica a piene mani la vittoria di Rutte, sebbene il leader liberale perda 8 seggi rispetto alle elezioni di cinque anni fa (33 contro 41), mettendo così in moto il gioco delle alleanze per la formazione della maggioranza governativa. Serviranno infatti 76 deputati sui 150 totali della Camera bassa, rintracciabili forse tra le fila dei cristianodemocratici di CDA, appaiati ai liberali di sinistra (D66) in terza piazza, con 19 seggi, subito dietro il PVV che ne marca 20. Wilders, dunque, non ottiene il tanto sperato colpaccio, ma incrementa la presenza parlamentare di 5 unità rispetto alle ultime elezioni, confermando la tendenza europea dello scivolamento a destra di una parte non indifferente dell'elettorato. Il leitmotiv della campagna di Wilders è stato un claim diffuso delle ultradestre continentali, che spazia dalla chiusura delle frontiere alla speculazione euroscettica ed anti-immigrati. Non a caso, i temi che hanno infiammato il dibattito elettorale. La narrazione del leader del PVV, che ha riscosso fascino soprattutto all'estero, si fonda soprattutto sulla sua alterità rispetto alla tradizione olandese, paese pioniere della tolleranza religiosa, nonché della libertà di pensiero e di stampa, che affondano le loro radici sino al tardo Medioevo. Accostato a Trump, non solo per una certa somiglianza fisionomica, Wilders ha saputo rastrellare consensi con grazie ad un marketing politico accattivante, fatto di improvvisate social ed una decisa abilità oratoria. Doti che, a dispetto della sconfitta, hanno portato il Partito per la Libertà ad essere il secondo più votato in Olanda. A far registrare un deciso balzo in avanti sono i Verdi (GroenLinks) di Klaven, che con 14 seggi fanno registrare un importante +10 rispetto al 2012. Un bacino di pesca potenzialmente allettante per i liberali di Rutte, sebbene le idee politiche tra i due movimenti appaiano distanti su diversi punti, contribuendo ad allontanare premature ipotesi di alleanza. A crollare decisamente nelle preferenze degli elettori sono i laburisti del PvdA, che con Rutte erano in coalizione al governo sino alla chiamata alle urne. Il Partij van de Arbeid scivola rovinosamente dai 38 seggi del 2012 ai soli 9 di questa tornata, compromettendo le chance di poter incidere concretamente all'intrno del dibattito politico "orange".