
E' una serata speciale in quell'appartamento di Park Avenue, nel cuore di Manhattan. Siamo nel Gennaio del 1970 e nella penthouse, un attico di 13 stanze residenza di Leonard "Lenny" Bernstein, famoso compositore e direttore d'orchestra, e di sua moglie Felicia si tiene un party "esclusivo", una serata di sostegno al Black Panther Party. C'è Otto Preminger in biblioteca, ci sono Mike Nichols, Aaron Copland, Sidney e Gail Lumet, c'è anche Charlotte Curtis, caporedattrice delle pagine femminili al New York Times. Ci sono soprattutto loro, le Pantere Nere. E c'è un giornalista ancora giovane, elegante nel suo vestito bianco e nella posa dandy, il cui nome è Tom Wolfe. I camerieri, grottescamente, pateticamente bianchi, e in livrea total white, servono agli ospiti bocconcini di Roquefort con noci tritate. Cheray Duchin, davanti a Robert Bay, esulta come se avesse tra le mani l'ultima collezione firmata Vogue: "Non ho mai incontrato una Pantera! E' la prima volta per me", confessa quasi emettendo gridolini. La serata, già scandalosa agli occhi di molti presenti, echeggia nel giorno successivo sulle pagine di tutti i quotidiani. In un editoriale infuocato pubblicato dal New York Times, la Curtis descriverà l'incontro come "un affronto per la maggior parte dei neri americani". Wolfe prende nota e, in un lungo resoconto pubblicato dal New York Magazine l'8 Giugno dello stesso anno, snocciola un reportage destinato a passare alla storia come pietra miliare del new journalism. Senza indulgere, ma non cadendo nel trappolone del giudizio automatico e moralisteggiante, Wolfe fotografa quella che egli stesso definisce la "stagione dei radical chic". Con un linguaggio frizzante, pulito e disincantato, cartina di tornasole del suo indiscusso talento, l'autore pone in evidenza pubblica le smargiassate radicali e l'iconoclastia imbelle della borghesia-bene newyorchese, ritraendola senza mai scadere nello sfottò e nell'analisi sempliciotta. Anzi, inserisce l'ascesa irresistibile di quella classe all'interno della storia sociale cittadina, rimarcandone la parabola dialettica. Ne discute criticamente l'estremismo di facciata, il gioco rivoluzionario ridotto a giocattolo per viziati, coniando una definizione, quella che dà il titolo al volume, la salonkommunist teutonica, destinata ad essere tramandata ai posteri nella sua sintetica, secca definitività ma ormai svuotata nei contenuti dall'utilizzo pervasivo che ne viene fatto ad ogni livello del dibattito pubblico. Accompagna l'analisi, sagace e ristretta ma mai superficiale, al risalto semitragico dei protagonisti del party, che assurgono ad un'umanità quasi da collezione (il cui rimando più prossimo può ritrovarsi nello splendido pezzo musicale "Democratic Party" di Daniele Sepe), immediata e non mediata dall'influenza del reporter. Pubblicato qualche anno fa in Italia, ed assente da fin troppo tempo dagli scaffali delle librerie, "Radical-chic. L'irresistibile fascino dei rivoluzionari da salotto" (che comprende anche il sagace "Mau-mauizzando i parapalle") viene oggi riproposto da Castelvecchi grazie al pulito lavoro di traduzione di Tiziana Lo Porto. Capostipite della non-fiction - come, se non forse più di "In cold blood" di Truman Capote - il sensazionale reportage "da salotto" di Wolfe si inserisce nella feconda stagione del giornalismo narrativo, che annovera tra i suoi pioneri lo stesso Capote, il fantastico Rodolfo Walsh di "Operazione massacro", Ryszard Kapuściński o ancora il Parise delle "Guerre politiche".