E' vero, forse il genere poliziesco non è uno dei terreni più battuti dall'autore, sia come scrittore che come semplice lettore, dal gradimento ancorato ai classici di Forsyth o Le Carré. Eppure con "Yeruldelgger" - vero e proprio fenomeno letterario in Francia - Ian Manook ci regala uno spaccato suggestivo di una Mongolia remota, romantica e sinistra, noir e picaresca. Pseudonimo di Patrick Manoukian, Ian Manook è scrittore di origine armena, insaziabile viaggiatore nonché professionista già noto nell'ambito dell'editoria per ragazzi. L'eroe della sua trilogia gialla - di cui in Italia Fazi Editore pubblica "Morte nella steppa" - è Yeruldelgger, commissario mongolo di stanza ad Ulaanbaatar, del quale non si conosce la caratterizzazione fisica, se non che ha mani enormi. Spigoloso, distaccato, truculento, il commissario viene calato nella complessità sciamanica di quella terra, oltre che nella contraddittoria modernità che la avviluppa dopo il sogno ugualitario dell'eroe nazionale Sükhbaatar, la cappa sovietica e le nuove influenze del neocapitalismo coreano e cinese. Yeruldelgger, in fondo, rappresenta il suo paese, un gigante dal ventre semivuoto occupato da appena 3 milioni di persone, un'apparenza inossidabile e promesse di precoce implosione. La sua vita scorre sul filo di lana, ammantata dalla coltre della violenza più spietata che va dalla steppa sino al piccone speculativo della capitale intitolata all'eroe rosso. Essa si manifesta non solo nei terribili assassinii delle vittime, tra cui quello di una bambina sepolta col suo stesso triciclo. E' la stessa violenza che circonda il mondo, quella a cui l'investigatore non vorrebbe arrendersi, ma che lo trascina sospinta dalla tensione tra le moderne tecniche di risoluzione dei casi e le velleità conservatrici della tradizione millenaria mongola, portato di un'educazione buddista. Nomadi della steppa, neonazisti, poliziotti corrotti: tutta la cornice colora di suspense la storia, intricata e cruenta, inintelligibile se non attingendo al pozzo della storia e della memoria. Memoria che torna e non può essere elisa nei lavori dell'autore, parte di un popolo che ha conosciuto il genocidio e la diaspora, e per questo abituato a tenere gli occhi aperti sul mondo, senza la necessità di legarsi mani e piedi ad un luogo che assurga a timbro identitario. Manook ha scritto le opere su Yeruldelgger attingendo ai suoi diari di viaggio, aggiornandoli - come da lui stesso affermato - con i dati forniti dall'attualità sociale e politica della Mongolia. Ed è con lo sguardo cosmopolita di un armeno di stanza in Francia che si è avvicinato al racconto di un popolo che - come i vecchi servi della "gleba", ossia della zolla di terra - è rimasto indissolubilmente legato, mani e piedi, a quella steppa.