
Vi siete mai chiesti in quale posto la vita vi avrebbe condotti? Alessandro Barbaglia, giovane poeta-libraio del novarese lo fa, e immagina una insolita locanda per due persone, fatta di assi di legno scartati dalla lavorazione di una barca mai partita - del resto, i viaggi più sicuri non sono quelli mai fatti? "La locanda dell'ultima solitudine", edito da Mondadori, è una chicca fatta di deliziose metafore sulla vita, sulla paura di viverla, sulla solitudine e le attese. Libero, giovane dalla rossa testa riccioluta, aveva fatto dell'attesa della sua "Lei" una ragione di vita, tanto da aver prenotato un soggiorno alla locanda a ben dieci anni di distanza, immaginando e pregustando ogni particolare. Viola, appartenente ad una bizzarra famiglia di "accordatrici" di fiori, vive in un piccolo paesino che sente stretto, ma che non ha il coraggio di abbandonare come molti anni prima aveva fatto suo padre. Due anime in pena, condannate a vivere in una pelle che non è la loro, obbligati ad avere malinconia di qualcosa che non sembra mai accadere. Queste due vite, ignare l'una dell'altra, sono destinate a legarsi a causa di una serie di eventi quasi magici. A fare da contorno alla vicenda una pletora di personaggi surreali che fungono da Deus ex-machina per questo incontro: dallo scomparso padre di Viola, cameriere della locanda e giocatore di bocce "immaginarie", alla saggia Lena, vicina di casa di Libero e dispensatrice di consigli, al locandiere Enrico, bambino partigiano che riesce ad infondere magia nelle patate che pela, tanto che il loro cuore assume il sapore della pietanza che si desidera. Una menzione in particolare va al nero Vieniquì, il cane di Libero che magicamente scompare e riappare, accompagnando silenziosamente i personaggi verso il proprio destino. Con uno stile leggero e delicato, Barbaglia ci prende per mano e ci porta in un mondo evanescente dove l'animo umano si scontra e si liquefa nei flutti incessanti del mare della perenne ricerca del senso ultimo. La solitudine, compagna fedele di tutti i protagonisti, ci rammenta la nostra condizione di fragilità, ma ci sprona anche a vivere la nostra vita trasformando l'attesa nella speranza che arrivi l'attimo in cui improvvisamente niente è più sfocato, in cui ci diventa palese il perché siamo approdati in un dato porto. Una narrazione dallo stile semplice ed evocativo, affine al mondo della natura, quasi a sottolineare che le radici dell'essere umano e ciò che lo circonda sono importanti, lo nutrono continuamente e lo rendono protagonista di una storia, la sua. Del resto, lo stesso autore afferma scherzosamente, in una intervista rilasciata al blog "Ho un libro in testa" che: "Chi non sa badare ad una pianta, non sa raccontare una storia". Confido infatti, che Barbaglia abbia un bel pollice verde.