
"Non quella pioggia schietta e fiera, no. Una pioggia misera. Stenta. Poco convinta." Fernand Iveton è sull'uscio, in attesa di qualcosa. Mancano pochi minuti alle 19.30, l'ora nella quale la rappresentatività del gesto simbolico che sta per compiere deflagrerà insieme alla bomba che deve piazzare. E' un operaio, Fernand. Un operaio comunista in un'Algeria ancora preda - siamo nel 1956 - del giogo colonialista francese. Una bomba. Quella che, alle 19.30 in punto, deve piazzare nella stessa fabbrica in cui lavora. Ma non per ferire o uccidere, no: non si risponde al sangue con altro sangue. La lotta intrapresa da Front de Libération Nationale algerino e Partito Comunista è lunga e incanalata su un sentiero ripido, scosceso, fatto anche di vite umane. Ma quella bomba no, deve solo dilaniare qualche muro e provocare un gran casino. A quell'ora l'opificio è vuoto, gli operai hanno chiuso il turno e sono in attesa del supplizio del morte successivo. Niente morti. C'è la morte fisica, sì, ma c'è anche una morte più fittizia, che accade ogni giorno: quella del popolo musulmano martoriato ed umiliato nella sua esistenza da un dominatore cieco e senza pietà. Qualcosa non va come deve, però. Fernand piazza l'ordigno, ma subito è assalito dalle forze di polizia di Algeri. Qualcuno ha tradito e ora è lui che deve pagare all'altare dell'imperialismo occidentale in salsa transalpina e dell'ordine costituito. "Non torcetegli un capello", raccomandano i massimi gradi della gendarmerie: le 19.30 sono solo un inizio, c'è tutto un tempo - ore, giorni, settimane - per rendere il corpo di un operaio reticente centro di gravità del gioco della tortura. E' quello che resta di Fernand: il carcere, le vessazioni, lo scempio fisico della sua carne, e l'amore con Hélène, moglie degna e drammaticamente consapevole del destino di un marito comunista nell'Algeria di fine '50. "Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi", sembra pensare Fernand mentre i suoi aguzzini pasteggiano con la sua persona. C'è antidoto, forse, alla violenza gratuita e vigliacca di cui si ciba il sommo imperio, qualunque sia il suo colore: possiamo immaginare, come nel caso di Fernand, che egli continui ad essere l'incubo di Mitterrand, anche nei momenti in cui i fendenti fanno cadere dai suoi brandelli lacrime e sangue vivo. C'è tutto nel martirio di Fernand: la crudeltà e la contraddittorietà di un potere che, pur di stroncare i vagiti della Resistenza algerina, fa scempio delle sue stesse sovrastrutture. Iveton è incarcerato e seviziato illegalmente, gli è negata una Grazia cui avrebbe dovuto accedere. L'11 febbraio 1957 è la ghigliottina a segnare il suo destino, ma anche quello di una Francia che, di lì a poco, non avrebbe più resistito all'onda d'urto di tanti altri Iveton.
Pubblicato e tradotto in Italia da Fazi, "Dei nostro fratelli feriti" è valso all'autore Joseph Andras il "Premio Gouncourt - Opera prima" del 2016, rifiutato dallo stesso. "La letteratura non è competizione", ha dichiarato lo scrittore originario della Normandia. Sorpresa, sdegno, voci di corridoio puntualmente trasformate in cori polemici. Andras, come Iveton, ha sganciato il suo ordigno, e come il suo personaggio ha reso più limpida e coerente la bellezza del suo lavoro.