Pur avendo un unico titolo, "Famiglia" accorpa al suo interno due racconti: uno che dà il titolo al volumetto e l'altro, invece, denominato "Borghesia". Natalia Ginzburg, autrice di entrambi, li pubblicò nel 1977 con la casa editrice Einaudi che oggi li ripropone in una nuova veste grafica. Sia "Famiglia" che "Borghesia" mettono al centro della narrazione l'esistenza umana. Già leggendo le prime pagine si nota che i singoli personaggi sembrano essere stati lanciati sulla scena senza un criterio di fondo. Vite abuliche che trascorrono sospinte quasi da una forza superiore. Tanti fantocci che sembrano non rendersi conto di ciò che realmente accade intorno a loro. Una ex coppia legata in gioventù che poi si ritrova quando ormai entrambi hanno dei figli, ma solo per stringere un paradossale legame di amicizia. Una donna sposata che si invaghisce di uomini ancora più singolari del consorte, un medico che cura con sincera partecipazione i propri malati rifuggendo però da qualsiasi contatto umano che esuli dalla sua professione medica. E, ancora, un insieme variegato di persone che vivono nello stesso palazzo, apparentemente unite da legami di parentela ma che, in realtà, conducono esistenze autonome e ripiegate su se stesse. Una madre che sembra perdere il suo tempo dietro agli animali domestici mentre la giovanissima figlia, dopo aver lasciato il marito, si rifugia in una fattoria con un altro per poi essere ripudiata non appena diventerà madre a sua volta. Un uomo maturo che si invaghisce di una giovane e decide persino di sposarla ma lei, dopo pochi mesi, lo tradirà con un il ragazzotto abbandonato di cui sopra. Surreale credo sia il termine più consono per descrivere ciò che si trova dinanzi il lettore mentre sfoglia le pagine di questo libro. C'è chi ha definito geniale questo modo di rappresentare la borghesia romana degli anni Settanta, un periodo in cui i valori familiari sembrano disgregarsi dinanzi all'avanzare del progresso. Personalmente, sono stata colpita soprattutto dal grigiore dell'ambientazione, dall'insieme sparso dei dettagli, superflui talvolta, di cui sono disseminati i racconti. La narrazione della Ginzburg mi ha lasciato profonda amarezza, più volte ho rischiato di perdere il filo del discorso poiché la quantità eccessiva di personaggi che interagiscono risulta spesso caotica e dispersiva. C'è sempre qualcosa di non detto tra loro: ansie, livori, sentimenti taciuti che restano sospesi mentre i singoli personaggi sono impegnati nel mantenere rapporti di circostanza o nel condurre la propria routine. Forse risiede in questo la grandezza dell'autrice, nell'aver interpretato con una narrazione frammentaria lo sfacelo dei valori che avevano caratterizzato secoli di rapporti familiari. Ma, nonostante ciò, ritengo che una scrittura più ricca e con un maggiore senso di empatia avrebbe sicuramente fornito una visione d'insieme più completa e un amore maggiore per i personaggi.
Natalia Ginzburg è considerata una figura di spicco nel panorama letterario italiano. Figlia di uno scienziato triestino di origine ebrea, il cognome da nubile di Natalia era infatti Levi, fu costretta a subire le leggi razziali che si abbatterono sull'Italia a partire dal 1938. Il suo esordio letterario avvenne nel 1933 con "I bambini" mentre cinque anni dopo sposerà Leone Ginzburg, docente universitario che trovò la morte nel 1944. In quegli anni Natalia strinse forti legami con la casa editrice Einaudi con la quale pubblicherà molte delle sue opere. Dopo il matrimonio con l'anglista Gabriele Baldini, cui seguì la nascita di due figli - di cui uno morto piccolissimo - la Ginzburg inizierà a concentrarsi sui temi della memoria e della psicologia come si può evincere da "La voce della sera" e da "Lessico famigliare", il suo volume più famoso. Collaboratrice per il "Corriere della Sera", continuerà ad approfondire le tematiche legate al mondo degli affetti in "Caro Michele" e "La famiglia Manzoni". Nel 1969, in seguito alla morte del suo secondo marito e alla strage di piazza Fontana, la Ginzburg decide di dedicarsi alla vita politica: due anni dopo firmerà con altri intellettuali la lettera aperta all'Espresso sul caso Pinelli, dove si evidenziano responsabilità specifiche nella morte di Giuseppe Pinelli. Nel 1983 viene eletta al Parlamento come membro del Partito Comunista Italiano. Morirà a Roma nel 1991. Le sue opere letterarie hanno conosciuto anche una trasposizione cinematografica. Da "Ti ho sposato con allegria" venne tratto nel 1967 un film con Giorgio Albertazzi e Monica Vitti mentre "Caro Michele" venne portato sul grande schermo nel 1976 da Mario Monicelli: come interpreti furono scelti Mariangela Melato ed Alfonso Gatto, celebre poeta salernitano che per l'occasione accettò di calarsi nel ruolo del padre di Michele.