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Dal perbenismo alla "violenza": la Fabbrica del Dissenso

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Category: Editoriali
By Giovanni Apadula
Giovanni Apadula
17.Oct
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L'OPINIONE. "La distinzione principale ha luogo fra violenza storicamente riconosciuta (la violenza come potere) e la violenza non sanzionata. In una critica della violenza il criterio del diritto positivo non può trovare la sua semplice applicazione, ma deve piuttosto essere giudicato a sua volta". Parole e musica di uno dei più grandi intellettuali del '900, Walter Benjamin, che, non pago, aggiunge: "Il militarismo è l'obbligo dell'impegno universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato", e ancora che "ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto".

La discussione innescata dal grande filosofo marxista in "Angelus Novus" spiega proprio in questi giorni tutta la sua straordinaria attualità. All'indomani dei fatti di Roma, un coro unanime di indignazione si è sollevato da destra e manca, dagli epigoni borghesi della cosiddetta società civile, dai sindacati riconosciuti: tutti a condannare "le deprecabili scene di violenza", ad attribuirle a qualche centinaio di scalcagnati teppisti, ai soliti immancabili infiltrati black-block. E' davvero così tanto esecrabile ed indisponente questa "violenza"? è davvero questa la violenza che urge censurare? L'esempio che ci propone Benjamin è illuminante: vi è una violenza tout-court, quella del potere, che come tale si pone come legittima, ed una, quella delle masse, puntualmente bollata come teppismo, terrorismo. Tutto questo accade in questa Italia, in questa Europa, in gran parte di questo mondo, dove ogni giorno chi rappresenta le istituzioni ne fa pieno spregio, dando prova di inaudita VIOLENZA (del primo tipo). Spostare l'attenzione dalla prima alla seconda è una classica strategia di comunicazione del potere pubblico: la fabbricazione del consenso/dissenso.

Occorre presentare all'opinione pubblica il racconto offerto dai mass-media, condito con tutte le relative bugie e verità. Le elites capitalistico-finanziarie hanno interesse a dare una impressione di democrazia, allo scopo di creare non soltanto un'ampia area di consenso, ma anche il relativo "dissenso". L'autoreferenzialità del potere fa sì, infatti, che anche il dissenso si formi e si modelli secondo le esigenze dell'ordine costituito. E questo dissenso, ovviamente, non va limitato o represso, ma al contrario anche incoraggiato, allo scopo di isolare e mettere ai margini le forme radicali di opposizione: è il potere a creare il suo stesso dissenso, a propria immagine e somiglianza.

Ed è così che questo paese di rivoluzionari da salotto, così tanto impegnato a condannare il pensiero unico creato ed offerto dalle tv commerciali di stampo berlusconiano, finisce infine con l'aderire ad un altro pensiero unico (il "dissenso"), quello telecratico, perché piace chi lo fa. Ci si contenta di essere in possesso del bignamino della politica televisiva, fatto di pressapochismi, qualunquismi e ipocrisie del tutto acritiche, perché sufficiente a contrastare la deriva di questo pazzo esecutivo, dal cui sommario la parola "tumulto", "violenza", deve essere automaticamente eliminata, poichè in contrasto con l'omologazione ad uno pseudo pacifismo imperante. Un bignami che finisce con il sostituirsi a quello, autentico, della politica vera, partecipata, fatta di contrasti anche aspri, lasciandola appannaggio di partiti atrofizzati e scalcagnati.

Non vogliamo mica la Luna. Ma, come direbbe Benni, almeno una mezza idea nostra riusciamo ad avercela?
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