Come spesso succede ogniqualvolta attenzioni ed attese del mondo sono puntate su un evento, un punto, o qualsiasi forza centrifuga, il momento estremamente decisivo, e più complesso e delicato per chi ne è protagonista, non è propriamente nello svolgersi del fenomeno, ma soprattutto dopo la sua conclusione. La Palestina, lo Stato palestinese, dopo gli attacchi pre-elettorali orditi da Netanyahu che hanno provocato più di 150 morti, si trova ora, di fronte, una sfida perfino più difficile e delicata dei bombardamenti di Tsahal e di qualsiasi altra intimidazione o vessazione partorita dal ventre d'Israele. Il voto dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla richiesta di adesione della Palestina come Stato "osservatore", presentata da Abu Mazen, si è risolta con ben 138 voti a favore ed appena 9 contrari, così segnando una svolta storica sul piano delle relazioni internazionali, ma dal punto di vista più politico che giuridico.
Il parere favorevole dell'Assemblea va preso, per una serie di motivi, con le molle e con tutta la cautela del caso, nello sforzo di assegnargli un peso non eccessivamente superiore ai suoi effettivi meriti. In primo luogo, il provvedimento rischia di assumere le forme di un contentino che nulla aggiunge, dal punto di vista sostanziale, al destino della popolazione in termini di giustizia efficace e di rivendicazioni. Lo Stato di Palestina è, e resterà, nello stomaco vetrato delle Nazioni Unite, un membro privo del diritto di voto (e dunque di peso decisionale effettivo). In secondo luogo l'adesione, osteggiata sin dall'inizio dal premier israeliano Netanyahu, rischia clamorosamente di sortire il classico effetto-boomerang, rinverdendo rappresaglie e vessazioni da parte di Israele e dei suoi coloni. E non e un caso che, nella immediata successione del voto all'Onu, il Gabinetto della sicurezza nazionale dell'esecutivo di "Bibi" abbia autorizzato il progetto di costruzione di tremila nuove case destinate ai coloni in una delle aree più cariche di tensioni, quella "E1" alle porte di Gerusalemme Est, così da tagliare letteralmente in due il territorio della Cisgiordania.
Ecco, dunque, che la risoluzione della endemica e sanguinosa "questione palestinese" non può non passare attraverso il disegno, necessariamente politico, di costruzione di uno Stato palestinese e di una coscienza collettiva, oltre che di una opposizione nazionale e contestuale denuncia della politica militarista di Israele, che vada ben al di là del mero dato fattuale della autodeterminazione. Facendo cioè rientrare la lotta (non la rassegnazione, come ricordava Fortini) della popolazione palestinese in una dinamica di ribellione mondiale per la liberazione dal colonialismo capitalista. Nel corso della sua pur breve vita, Israele non ha esitato a fare carta straccia di numerose risoluzioni e richieste delle Nazioni Unite (l'ultima delle quali censura il rischio di proliferazione nucleare in Medio Oriente). Se tutto ciò venisse, ancora una volta, disatteso, allora non potremmo non assistere, parafrasando Deleuze, al nuovo inizio del grottesco e della violenza.
Il parere favorevole dell'Assemblea va preso, per una serie di motivi, con le molle e con tutta la cautela del caso, nello sforzo di assegnargli un peso non eccessivamente superiore ai suoi effettivi meriti. In primo luogo, il provvedimento rischia di assumere le forme di un contentino che nulla aggiunge, dal punto di vista sostanziale, al destino della popolazione in termini di giustizia efficace e di rivendicazioni. Lo Stato di Palestina è, e resterà, nello stomaco vetrato delle Nazioni Unite, un membro privo del diritto di voto (e dunque di peso decisionale effettivo). In secondo luogo l'adesione, osteggiata sin dall'inizio dal premier israeliano Netanyahu, rischia clamorosamente di sortire il classico effetto-boomerang, rinverdendo rappresaglie e vessazioni da parte di Israele e dei suoi coloni. E non e un caso che, nella immediata successione del voto all'Onu, il Gabinetto della sicurezza nazionale dell'esecutivo di "Bibi" abbia autorizzato il progetto di costruzione di tremila nuove case destinate ai coloni in una delle aree più cariche di tensioni, quella "E1" alle porte di Gerusalemme Est, così da tagliare letteralmente in due il territorio della Cisgiordania.
Ecco, dunque, che la risoluzione della endemica e sanguinosa "questione palestinese" non può non passare attraverso il disegno, necessariamente politico, di costruzione di uno Stato palestinese e di una coscienza collettiva, oltre che di una opposizione nazionale e contestuale denuncia della politica militarista di Israele, che vada ben al di là del mero dato fattuale della autodeterminazione. Facendo cioè rientrare la lotta (non la rassegnazione, come ricordava Fortini) della popolazione palestinese in una dinamica di ribellione mondiale per la liberazione dal colonialismo capitalista. Nel corso della sua pur breve vita, Israele non ha esitato a fare carta straccia di numerose risoluzioni e richieste delle Nazioni Unite (l'ultima delle quali censura il rischio di proliferazione nucleare in Medio Oriente). Se tutto ciò venisse, ancora una volta, disatteso, allora non potremmo non assistere, parafrasando Deleuze, al nuovo inizio del grottesco e della violenza.