
GIORNALISMI. Era il 24 Marzo, il giorno successivo al Clasìco di Spagna, la partitissima che vedeva opposte le grandi duellanti di Spagna, il Madrid ed il Barça, divise dentro e fuori dal campo da una rivalità storica e politica. Buttai il solito sguardo perlustrativo alla rassegna stampa mattutina, e decisi di intrattenermi per un po' anche su quella sportiva. Mi colpii in particolare il titolo di un quotidiano sportivo a tiratura nazionale, noto per le sue campagne di sciacallaggio ai danni di quel poco che resta della classe arbitrale italiana, caduta a pezzi sotto il fardello ingombrante di un caso giudiziario che si trascina da anni, capace di mietere più vittime che non carnefici, presunti o reali che fossero. Il giornale in questione, riferendosi al derby iberico, titolava testualmente "Lezione di calcio", con una chiara allusione allo spettacolo sovente offerto dal campionato nostrano. Quella sera stessa a Catania era andata in scena una caccia all'uomo ai danni dei calciatori juventini, rimasta parzialmente impunita in un clima più simile ad un teatro di guerra che non ad un evento sportivo. Confesso che alla lettura del titolo in questione per poco non mi partì un embolo. Madrid-Barça fu sì una bella partita, come del resto dovrebbe essere con una dozzina tra i top 30 calciatori del globo, due difese reduci dalla Festa delle Cantine, con un Martino che sembra bravo a far giocar male anche 11 Maradona ed un Ancelotti sempre sul pezzo nel momento dell'harakiri in campionati per tre quarti già vinti; ma, a onor del vero, lo fu soltanto per una cinquantina di minuti scarsi, e con un secondo tempo trascinatosi tra molte pause ed invereconde sceneggiate contro l'arbitro, che di lì a poco non ne avrebbe imbroccata una. Come del resto è spesso successo tra le contendenti in questi ultimi anni. A conti fatti furono assegnati nella ripresa ben 3 rigori, 2 dei quali davvero ai limiti, tra cui uno ai blaugrana quantomeno dubbio, con relativa discutibile espulsione di Sergio Ramos per interruzione di chiara occasione da rete. Il "terzo tempo" del match lasciò spazio ad accuse di ogni genere sulla regolarità del campionato e sulla buona sorte del club barcelonista con le tute nere, tanto che non uno qualsiasi, il Pallone d'Oro Ronaldo, quello che aveva ricevuto un rigore per fallo fuori area, si lasciò andare a pesanti dichiarazioni che gli sarebbero poi valse il deferimento. Durante il mio travaso di bile ho provato soltanto minimamente ad immaginare una partita del genere teletrasportata in Italia, con tanto di polemiche in partita e caroselli infuocati ai microfoni dei reporter del dopogara. Ho provato a raffigurarmi la prima dello stesso quotidiano nelle stesse condizioni per una gara di cartello del campionato italiano; e ne ho dedotto che la paraculaggine ed il tasso d'incompetenza maligna di chi scrive di calcio in questo paese è forse pari soltanto alla loro ipocrisia. E, sostanzialmente, a quella di una architettura baroccamente fittizia come quella del Clasìco, messa beffardamente in piedi davanti al simulacro sgonfio del Financial Fair Play con lo strozzinaggio Bankia e Caxia ai danni della classe operaia iberica, quei lavoratori andalusi e quei minatori asturiani comunque pronti al sacro rito dei novanta minuti, durante i quali inviare preghiere agli usurpatori in terra del ruolo degli dei, come fosse un qualsiasi lancio a tempo scaduto dalla difesa merengue.
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GIORNALISMI E QUALITA' MEDIA. Non so quando, ecco, sia cominciata la smodata passione del giornalismo sportivo nazionale verso un presunto calcio "di qualità", quasi come fosse diventata essa stessa uno sport, una caccia infinitesimale al pelo nell'uovo nella prestazione di questa o quella squadra, con canoni e variabili a dir poco arbitrarie, se non bizzarre. Poco tempo fa un puntuale cronista sportivo come Simon Kuper avanzava sulle pagine del Financial Times la necessità di una iniziazione al giornalismo sportivo di qualità. L'articolo passa intelligentemente in rassegna grandi scrittori che in un modo o in un altro hanno intercettato la dimensione del mondo sportivo nei loro lavori, da Hemingway a Nick Hornby, passando per Don DeLillo, nel conclamato anelito ad una cronaca sportiva che sia ontologicamente peritale, qualitativa, ed al tempo stesso non elitaria, alta ma destinata al consumo di massa. Kuper traccia una serie di coordinate che inevitabilmente non toccano, e non solo geograficamente, l'Italia. E questo accade non perché in Italia manchi chi sappia scrivere bene "sul" calcio (Mario Sconcerti, ad esempio, è un colto e raffinato cantore di cose sportive). Ma perché manca chi sappia scrivere "di" calcio, o comunque di sport in senso lato. Molto spesso l'analisi si riduce al racconto meccanicistico della partita, alle prodezze di questo o quell'atleta, ai fuori di testa di personaggi ormai carne da gossip ed ai rumors di mercato. Sezioni di approfondimento sino al limite parossistico dell'ossessione sono dedicate alla moviola sugli episodi dubbi, la vera arte di eccellenza degli addetti ai lavori. I tabellini dei match rappresentano, comunque, un profilo per certi versi marginale se solo si provano a spulciare le analisi dei sedicenti esperti. Il tracollo vero e proprio, infatti, si verifica quando chi scrive o ne discute in salotti televisivi sempre più grigi e tristi prova a contestualizzare un incontro nelle dinamiche del gioco che lo hanno contraddistinto. Qui l'imperizia ed il luogocomunismo raggiungono vette probabilmente impronosticate (basti pensare alla famosa locuzione di schieramento "a specchio" per le squadre che sovente affrontano la Juventus; o al non meglio specificato "modulo europeo", leitmotiv di un personaggio come Maurizio Pistocchi, ai più noti per essere stato lo zimbello preferito di Raimondo Vianello). Le ricette proposte nei principali quotidiani sportivi italiani rasentano molto spesso un'imperizia imbarazzante, non di rado condita da un livore pregiudiziale verso questa o quella squadra, e preferenze molto spesso dettate da logiche geografiche direttamente collegate al bacino d'utenza di riferimento. Non è un caso dunque, ed è un fenomeno progressivamente verificatosi anche con riguardo al giornalismo tout court, e quindi alla cronaca in senso stretto, che gli spunti di maggiore qualità siano arrivati da blog e portali online, molto spesso frequentati da autori formatisi direttamente sul campo o comunque a stretto contatto con lo sport per lavoro, passione o stupenda passione professionale. Uno di questi è sicuramente l'Ultimo Uomo, diretto dall'ottimo Daniele Manusia, già su Vice, e che spesso ospita gli illuminanti interventi di Valentino Tola e di un allenatore sul campo come Fabio Barcellona.
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MISTIFICAZIONI (IN)VOLONTARIE: APPLICAZIONI PRATICHE. La weltanshauung deviata dei commentatori sportivi si nutre molto spesso di un immaginario filtrato, e che gli stessi non sono in grado di depurare. Una delle cantilene degli ultimi due anni ripeteva a menadito il ritornello per cui la Fiorentina giocasse il miglior calcio nel campionato italiano (e
QUI viene impeccabilmente spiegato in lungo ed in largo perché la canzoncina è in realtà una grossa panzana). Altri ancora si affrettano a descrivere la Juventus come una squadra aggressiva, "cattiva", che corre "con ferocia", non molla mai ed ha il carattere del suo allenatore. Insomma, come se bastasse Charles Bronson per vincere due campionati (e tre quarti) di fila. Non è un caso che il primo allenatore avversario a sintetizzare per bene il modus operandi dei bianconeri sia stato un campione di smisurata cultura sportiva come Clarence Seedorf: giocate codificate, velocità di esecuzione, memoria collettiva e fraseggio non solo esteticamente fine a se stesso (sebbene leggermente calato per i molteplici impegni e la rosa risicata). Lo zenit dell'insipienza mediatica viene tuttavia raggiunto quando si parla del Napoli di Rafa Benitez, un personaggio che con la sua aria fintamente e furbescamente bonaria ha saputo crearsi un fitto stuolo di lacché entusiasti. Rafa Benitez è senza dubbio un ottimo allenatore, nella misura in cui riesce ad imprimere alle sue squadre una precisa identità, quella richiesta dai suoi desiderata. E lo è, mi spiego, alla stessa stregua di un Mazzarri tecnico di un Napoli di qualità nettamente inferiore. Nella sua biografia uscita di recente, un mostro sacro come Alex Ferguson ha duramente apostrofato il tecnico madrileno, suo avversario negli anni passati in EPL. Al di là delle questioni meramente personali, Ferguson ha saputo dire di Benitezzzzzzzz (e si, così era noto ai tempi del Liverpool per il suo "calcio champagne") quello che nessuno in Italia ha mai avuto il coraggio di bisbigliare: che è un catenacciaro. Nel senso più evoluto della tecnica nata in Svizzera e portata in Italia da Rocco: mira più alla pars destruens che non a creare gioco. E pensare che in moltissime gare di campionato ne ha dato dimostrazione lampante (non solo a Torino con la Juve o con qualche buona provinciale, ma persino con un frastornato Milan e in casa contro l'improponibile Inter mazzarriana). La squadra di Benitez in genere pecca di geometrie, non ha dimestichezza ad occupare ed aprire spazi per bucare le difese avversarie, faticando ad essere corta e lasciando praterie alle spalle della linea mediana. Viceversa riesce ad esprimersi al meglio con chi ne asseconda il balletto non esasperato, uscendo alla distanza in virtù di un maggiore bagaglio tecnico e del progressivo logorio mentale dell'avversario. Contro le squadre in grado di imporre i ritmi della contesa, invece, non riesce ad esprimersi in continuità. La giocata offensiva, il cavallo di battaglia degli apologeti dell'iberico, è in realtà molto spesso legata al colpo di genio di uno dei fantasisti o alla giocata del vero fuoriclasse, Gonzalo Higuain, spesso chiamato anche al lavoro di rifinitura a causa della consistenza scialba del duo di centrocampo. Stupisce la mediocrità delle transizioni negative, solo in parte legata alla poca qualità dei singoli interpreti, per un allenatore sempre molto attento alla fase difensiva, e forse soffocato dal peso delle aspettative che lui stesso ha contribuito a creare. Il colpo di genio del castigliano è stato quello di aver pensato, e a ragione viste le reazioni, di essere giunto nel terzo mondo pallonaro, popolato da amebe a cui impartire lezioni dall'alto della sua cattedra di Castelvolturno. Convinto fermamente, qui, di poter trovare facili proseliti in chiunque avesse bisogno di rassicurazioni da un facile profeta pronto a mettere la "s" alla fine di ogni singola parola del suo Vangelo. Tempo fa Toni Negri, tifoso del Milan, sosteneva che il catenaccio era l'unica arma possibile per i deboli di fronte ai padroni, quasi una simulazione in campo della lotta di classe. In fondo a Benitez non costerebbe tanto ammettere la condizione proletaria delle sue squadre, anche se forse ingiustificata economicamente per le cifre notoriamente sborsate dai suoi club. Ma almeno non farebbe la figura del piccolo-borghese che anela a diventare più cattivo dei veri padroni. Così come molti giornalisti, sempre avvezzi a lodi sperticate di qualsiasi ciuffo d'erba provenga da un campo che non sia il proprio.