Lo scienziato giapponese ha sempre dichiarato di non aver mai utilizzato cellule embrionali per i suoi studi e ha motivato così la sua scelta «Ero un assistente universitario di farmacologia e lavoravo a un progetto in cui si utilizzavano anche cellule embrionali – ha raccontato al quotidiano liberal americano – Un giorno un mio amico che lavorava in un clinica di procreazione assistita mi invitò a visitarla, e mi fece guardare al microscopio un embrione. Quella vista cambiò la mia carriera scientifica. Quando vidi l’embrione, improvvisamente realizzai che c’era una piccolissima differenza tra quello e le mie due figlie. Pensai che non potevamo continuare a distruggere embrioni per la nostra ricerca. E che ci doveva essere un’altra strada».
Il Nobel è andato, invece, all’inglese Robert Edwards per le sue ricerche sulla fertilità in vitro con la motivazione da parte dell’Accademia di Svezia che questi è stato un “pioniere di una tecnica che ha avuto fortissime ricadute nella società â€.
Il mondo scientifico plaude così al successo della tecnica di fecondazione artificiale che, dopo la nascita della prima bambina nel 1978 Luoise Brown, ha visto alla luce fino ad oggi oltre tre milioni di bambini. Questo basta per fare di Edwards una “icona religiosa†della laicità e non si smentisce l’illustre Severino Antinori che definisce questa assegnazione una vittoria contro tutti i pregiudizi etici e morali.
Si plaude alla nascita di milioni di bambini ma nessun accenno al fatto che l'uso di questa tecnica comporta un “surplus embrionaleâ€: si porta a maturazione un elevato numero di ovuli che vengono poi fecondati “in vitro†e dei quali solo una parte viene utilizzata ad ogni tentativo di impianto e questo allo scopo di evitare di sottoporre la donna a pressione endocrinologica troppe volte. Bisogna anche ricordare che in fase di impianto si pianifica di “sacrificare†la maggior parte degli embrioni di cui si tenta l’impianto per aumentare le probabilità di un esito positivo del medesimo.
Ma l’embrione dimenticavo è una cosa non una persona.
E' stata sottolineata anche la semplicità della tecnica (una fecondazione in vitro dell'ovulo con successivo trasferimento dell’embrione così formato nell’uterodella donna) e i suoi successi ( tre quarti di queste gravidanze arrivano al parto), ma nessun accenno ai rischi per le donne. E a nessuno sembra interessare il “rischio eugenetico†sotteso a questa tecnica: l’operatore deve scegliere tra gli embrioni disponibili quali impiantare, ma con quale criterio si opera questa scelta non è dato sapere se il caso, la biologia, o le indicazioni dei genitori.
Forti quindi le perplessità nel mondo cattolico monsignor Ignacio Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia per la Vita ha commentato: "Senza Edwards non ci sarebbe il mercato di ovociti; senza Edwards non ci sarebbero congelatori pieni di embrioni in attesa di essere trasferiti in utero o, più probabilmente, di essere usati per la ricerca oppure di morire abbandonati e dimenticati da tutti".
Ma agli assegnatori del premio nobel tutto ciò sembra interessare molto poco.
Il Nobel è andato, invece, all’inglese Robert Edwards per le sue ricerche sulla fertilità in vitro con la motivazione da parte dell’Accademia di Svezia che questi è stato un “pioniere di una tecnica che ha avuto fortissime ricadute nella società â€.
Il mondo scientifico plaude così al successo della tecnica di fecondazione artificiale che, dopo la nascita della prima bambina nel 1978 Luoise Brown, ha visto alla luce fino ad oggi oltre tre milioni di bambini. Questo basta per fare di Edwards una “icona religiosa†della laicità e non si smentisce l’illustre Severino Antinori che definisce questa assegnazione una vittoria contro tutti i pregiudizi etici e morali.
Si plaude alla nascita di milioni di bambini ma nessun accenno al fatto che l'uso di questa tecnica comporta un “surplus embrionaleâ€: si porta a maturazione un elevato numero di ovuli che vengono poi fecondati “in vitro†e dei quali solo una parte viene utilizzata ad ogni tentativo di impianto e questo allo scopo di evitare di sottoporre la donna a pressione endocrinologica troppe volte. Bisogna anche ricordare che in fase di impianto si pianifica di “sacrificare†la maggior parte degli embrioni di cui si tenta l’impianto per aumentare le probabilità di un esito positivo del medesimo.
Ma l’embrione dimenticavo è una cosa non una persona.
E' stata sottolineata anche la semplicità della tecnica (una fecondazione in vitro dell'ovulo con successivo trasferimento dell’embrione così formato nell’uterodella donna) e i suoi successi ( tre quarti di queste gravidanze arrivano al parto), ma nessun accenno ai rischi per le donne. E a nessuno sembra interessare il “rischio eugenetico†sotteso a questa tecnica: l’operatore deve scegliere tra gli embrioni disponibili quali impiantare, ma con quale criterio si opera questa scelta non è dato sapere se il caso, la biologia, o le indicazioni dei genitori.
Forti quindi le perplessità nel mondo cattolico monsignor Ignacio Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia per la Vita ha commentato: "Senza Edwards non ci sarebbe il mercato di ovociti; senza Edwards non ci sarebbero congelatori pieni di embrioni in attesa di essere trasferiti in utero o, più probabilmente, di essere usati per la ricerca oppure di morire abbandonati e dimenticati da tutti".
Ma agli assegnatori del premio nobel tutto ciò sembra interessare molto poco.