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A freddo

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Category: Editoriali
By Giovanni Apadula
Giovanni Apadula
27.Feb
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elezioni93Pare che il giaguaro, alla fine della corsa, non abbia faticato nemmeno tanto per resistere ai tentativi vani e patetici di smacchiamento da parte di un leader politico rispedito negli anfratti polverosi che più gli competono, quelli di un mea culpa infinito col sottofondo di una nenia cantata troppo male, per essere vera. Ad ogni modo, il carrozzone sconquassato del circo elettorale si è sgonfiato sotto i colpi di un pareggio forse poco preventivabile alla vigilia, ma non per questo sorprendente, ed i fendenti per certi versi letali dell'arcipelago informe riconducibile al Movimento 5 Stelle.

Ricapitolando: si presentavano sulla scena elettorale una destra ultraliberista, saccente e dal volto torvo capeggiata da un professore incensato ad ogni piè da media proni ed asserviti, Mario Monti; e una destra un pò più caciarona, autoreferenziale e demagogica guidata dal sempreverde caudillo Silvio Berlusconi, più attenta al proprio tornaconto che non ai richiami delle sirene d'oltrefrontiera, con al guinzaglio una Lega travolta dagli scandali interni e sbiadita persino nella trivialità degli improperi rozzi urlati a squarciagola. C'era poi un democristianesimo di ritorno impersonato da un Partito Democratico ancorato a progetti nebulosi e troppo drammaticamente lontani da quella fetta di società, dapprima rappresentata, nel bene o nel male, da una piattaforma sui cui resti esso ha costruito la sua folle parabola. Come foglia di fico, il Pd approdava al voto in compagnia di un Vendola da tempo in fase discendente. Tutti, chi più, chi meno, fedelmente aderenti ai diktat bancocentrici provenienti dalle stanze dei bottoni del capitale finanziario. A muso duro, e forte dell'entusiasmo dei novellini, si presentava per la prima volta alle urne delle politiche nazionali anche il movimento grillino, una babele antropologica nel cui computo finale sarebbero poi confluiti autentici proseliti e zattere di scontenti in fuga dal collasso dei regimi partitici. Come outsider di lusso pronta ad intercettare le adesioni dei reduci malmessi della sinistra parlamentare, faceva capolino la piattaforma ingroiana, l'ultimo (speriamo) fallimento, un conglomerato, in buona parte, di ex deputati, ex pciini, ex questurini, guidata da un ex magistrato, nonchè futuro magistrato, e tenuta insieme dal collante ideologico del giustizialismo legalitario e che non ha mai mancato, per bocca del suo stesso leader, di fare ammiccamenti al Partito Democratico.

Ora, che l'instabilità creatasi dopo lo spoglio delle votazioni costituisca, oggettivamente, un portato dell'attuale strutturazione della legge elettorale, è un dato che non ammette discussione, e che va preso come tale. Ma che, proprio per questo motivo, un esito del genere non fosse pronosticabile (e, per certi versi, a certi livelli di potere, auspicabile) è cosa fuori dal mondo. L'esito elettorale, che nella forma primordiale lascia adito ad orizzonti di instabilità istituzionale e di precarietà di forma di governo, apre tuttavia a scenari in parte imperscrutabili e, forse proprio per questo, piuttosto inquietanti. Quella di Grillo, più che una vittoria, è stata una marcia trionfale in termini numerici, frutto della campagna imperialistica condotta a livello comunicativo attraverso un populismo digitale, ben pianificato nei corridoi Casaleggio, che sfrutta al massimo la professionalizzazione forzata del web (di per sè non un valore assoluto) ma che riduce ad unum gli spazi del conflitto sociale e politico, contribuendo ad una omogeneizzazione e ad una pericolosa identificazione tra il tutto e l'uno, tra vittime e carnefici. Da par suo, la parabola unidirezionale grillina ("Mandiamoli a casaaaaaaa") fa il paio con una dialettica interna smaccatamente protesa alla monarchia del regnante, e che al di là di un antieuropeismo tanto acceso quanto acritico, non nasconde venature liberiste, e si riverbera sovente nel delirio fascistizzante di alcune esternazioni (che tutti, a destra e manca, non dimenticano mai di sottolineare). Ciò detto, a Grillo va dato atto di aver fatto movimento nell'assenza pressochè totale del movimento, pur con la zavorra di una stampa e di un'informazione sempre pronto a bastonarlo per non scontentare i padroni. E nonostante i nasi arricciati di intellettuali sofisticati ed ormai travolti da nugoli di polvere, probabilmente restii ad intravedere nella base del movimento il terrore di un ceto medio in via di polverizzazione e quantomai ansioso di sfuggire ad un declassamento incombente per rientrare nel processo produttivo.

Al di là degli ingranaggi interni della macchina grillina, la tornata elettorale certifica la debacle del sistema partitico. Soprattutto di un Partito Democratico strafavorito alla vigilia, poi ridicolizzato e chiuso nella propria area di rigore non solo dalla risacca a 5 Stelle e dalla coriacea corazza del dominus arcoriano, novello Rasputin, ma soprattutto da una incapacità, ormai endemica ed acclarata, di svoltare nei momenti decisivi, una sorta di tensione suicida ad epurarsi, in una dinamica che, da sinistra, ha alienato voti decisivi ed imprescindibili. Il Pd trascina con sè nel limbo i vizi evidenti della malapolitica dei partiti, mai come in questo frangente distanti anni e anni luce dalle orribili macerie del paese, tese a coprire ed obnubilare una devastazione della realtà sociale ed economica che loro, i padrini della politica, hanno contribuito ad accelerare per soddisfare la sete di sangue del capitalismo finanziario. E l'ignavia è la stessa di ciò che resta della ex sinistra parlamentare, troppo occupata a vaneggiare fantasmagoriche alleanze con lo smacchiatore di giaguari, che qualche elettore particolarmente attento non avrebbe lesinato di punire.

Le elezioni ci restituiscono così un nuovo arco costituzionale, ma non garantiscono la rimozione delle macerie. Sotto di esse ancora si nasconde una realtà frastornata e perigliosamente scossa dagli urti devastanti della macchina da guerra comandata da Bce, Fmi e sodali. Anche contro questo status quo va letto il successo, inatteso nelle proporzioni, da parte di Grillo. Però. Però il grillismo non è Syriza, anzitutto. E soprattutto quei numeri difficilmente gli consegneranno il potere di amministrare il paese. Specie se dovesse verificarsi un'apertura al Pd in seno all'assemblea pletorica. O, soprattutto, se all'orizzonte dovesse stagliarsi l'eventualità di una Grosse Koalition tra le forze partitiche ridimensionate dal voto. Ed è uno scenario plausibile, alla luce di un risultato che potrebbe aver soddisfatto quei poteri forti che nemmeno speravano in un copione tanto compiacente. La società dovrebbe saper mobilitarsi, prima che i fascismi (quelli veri) prendano il sopravvento, con il rischio di pressurizzarla come non mai. A quel punto il progetto neoliberale che ha sfregiato le velleità solidaristiche e socialiste di una vera unione europea su base internazionalista potrebbe compiere la sua definitiva ristrutturazione.
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