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Irreality show

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Category: Editoriali
By Giovanni Apadula
Giovanni Apadula
20.Feb
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Volge ormai al tramonto una delle campagne elettorali più scontate, irreali e noiose degli ultimi vent'anni, i cui effetti sono stati soltanto in parte attenuati da un evento storico dirompente, quale la rinuncia del Pontefice. Da una parte l'Eliogabalo di stanza ad Arcore ha tentato di ravvivare la commedia con qualche colpo di coda degno di un istrione, senza tuttavia surriscaldare oltremodo la platea, nè tantomeno la sua, ormai asfittica, schiera elettorale. Dall'altro lato, invece, si moltiplicavano i tentativi di emersione di un Mario Monti in grado di risplendere non tanto di luce propria, quanto piuttosto delle tenebre autoflagellanti imposte dal Silvio delle Libertà alla sua stessa immagine. Tutto ciò mentre gli epigoni del Partito Democratico, continuando a sguazzare nell'equivoco di considerarsi un partito di sinistra, ora sogghignavano, ora starnazzavano, prefigurando un possibile governo di intesa con l'uomo di Goldman Sachs ed il suo codazzo. "Bisogna saper gridare se si vuol contrattare", afferma Brecht ne "Gli affari del signor Giulio Cesare" per descrivere i tanti Mumlio Spicro che veleggiavano tra gli optimates posti a capo della city romana.

Insomma, soltanto agli occhi di un osservatore poco attento o perfino poco abituato alle dinamiche sociali e politiche di queste paese, una simile commedia poteva suscitare sorpresa o imbarazzo. Stupisce, pertanto, che autorevoli quotidiani come il Financial Times o lo stesso New York Times mettano in guardia gli elettori da un "pericolo", quello berlusconiano, che questi dovrebbero conoscere molto bene, visto che hanno contribuito a crearlo. Stupisce, invece, molto meno che gli stessi organi d'informazione si guardino bene dal sollevare questioni critiche altrettanto delicate intorno alle altre figurine principali della battaglia politico-elettorale, in ossequio al dogma pretenzioso ma efficace della unicità dei mali. Forse perchè ciò significherebbe porli in contatto dialettico con la realtà economica e sociale, una cosa rispetto alla quale lorsignori sono lontani anni luce, non avendoci nulla a che fare. "Per fare politica, si portava nella curia il diluvio, o almeno la sua schiuma: i carnefici, gli strozzini".

In questa campagna elettorale nessuno dei candidati ha, prudentemente, osato affrontare questioni di politica estera, di ritorno al neoliberismo coloniale, o addirittura di inquinamento, impazzimento ed impossibilità di controllo del circuito finanziario globale, il cui unico obiettivo è spostare le risorse dalla socialità di massa al buco nero del proprio tornaconto, in un girotondo di parole, opere ed omissioni che va dal nulla alla più assoluta povertà. Nessuno ha provato ad affrontare il tema delle connessioni internazionali dell'affaire Monte Paschi, dei giochetti azzardati che pullulano a Londra, dei buchi miliardari di Jp Morgan, o ancora il caso dell'emergenza umanitaria nella Grecia dell'austerity moltiplicatrice della recessione, scaturita da quell'avviluppo di recessione e vuoto cosmico che è la ricetta imposta dalla finanza europea ed internazionale. Nè tantomeno alcuno ha messo in gioco il termine "debito", indebitamento generale, come fonte primigenia per il meccanismo di accumulazione del capitale finanziario. D'altro canto, non erano forse i debiti la cosa più grande di Giulio Cesare, nonchè strumento principale del suo dominio e del suo potere, come sembra volerci insegnare Brecht?

Tutto ciò accade perchè il linguaggio politico adopera categorie caratterizzate dalla autoreferenzialità e dal dominio indirizzato del corpo e del pensiero, dalle quali sarebbe opportuno alienarsi. Categorie pressoché inabili ad incidere in senso positivo sulla realtà sociale ed economica. Nel capolavoro brechtiano, Cesare rappresenta la perfetta soggiacenza al denaro ed alle sue velleità di accumulazione nella Roma tardo-repubblicana. Quella stessa soggiacenza in nome della quale il capitale ha sacrificato la produzione diretta di "cose" allo scopo di "finanziarizzarsi", cioè alimentarsi da sè attraverso l'indebitamento del grosso della popolazione mondiale. Un meccanismo imploso soltanto pochi anni orsono, e che ora tenta di ristrutturarsi con l'esazione di un costo immane ed immondo, da purificare con la maschera dell'austerity, simulacro sempreverde alla verginità postuma. Sono i segni non già di una crisi, ma di una tendenza omicida rispetto alla quale il ceto politico (di qualsiasi ordine e grado) si pone in posizione di complice subalternità, e sulla quale, a volte, sembra perfino superfluo insistere, almeno sin quando non si abbiano gli strumenti per contrastarla. E questi, a ben vedere, non si celano in nessuna delle matite che giacciono inermi nelle cabine elettorali.
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