Eravamo stati facili profeti, giusto un paio di mesi fa, nel paventare la seria possibilità di un intervento armato in Mali da parte delle truppe francesi, sotto l'egida ausiliaria dell'Unione Europea. Questo rischio era stato dialetticamente collegato allo spasmodico interventismo del "nuovo corso" francese, orientato a tutelare gli interessi delle lobbies in gioco nell'Africa subsahariana e che, da questo punto di vista, non segna alcuna linea di frattura rispetto alla politica internazionale napoleonica di Sarkozy. Se, infatti, il vecchio inquilino dell'Eliseo era stato tra gli alfieri della prima ora nella crociata occidentale contro la Libia di Gheddafi, con il placet di gran parte dell'intelligencija francese comandata da Bernard-Henri Lévy (altri tempi quelli nei quali la Francia poteva gloriarsi dei suoi intellettuali, una categoria apprezzata nell'intero globo), non da meno ha voluto essere Francois Hollande, l'ispiratore del nuovo "socialismo di guerra" transalpino, destinato all'esportazione contro quegli stessi ribelli che il governo, viceversa, sostiene in Siria. Impelagandosi, così, in un conflitto che rischia di essere particolarmente esoso per le finanze nazionali, che potrebbe costringere il paese a legarsi al cappio teso da altri paesi in orbita Nato. Una logica davvero (in)oppugnabile.
Come spesso accade, vizi e virtù si palesano, dopo essersi nascoste, all'interno dello stesso ragionamento. La "virtù", se così si può chiamare, risiede nella semplice circostanza che l'intervento militare nel Sahel non ha scosso molte coscienze in madrepatria, fatta eccezione per l'opposizione dei comunisti e del Front de Gauche. I vizi, molteplici, si annidano nei numerosi gangli, procedurali ma non solo, che hanno scandito il ritorno francese al neocolonialismo africano. In primis, la legittimità stessa di un intervento armato su richiesta di un governo precario, instauratosi a seguito di un colpo di stato. A ciò si aggiunga che le Nazioni Unite avevano autorizzato l'intervento dei soli "caschi blu", composti esclusivamente da contingenti locali, allo scopo di sedare il conflitto civile animatosi da tempo nel nord del paese. L'intervento francese, approvato al solito dai sicari Nato, si è pertanto tradotto in una palese violazione degli obblighi internazionali di non ingerenza.
Non bisogna perdere di vista, tuttavia, che il conflitto etnico maliano, secondo il think thank euroamericano fomentato dalle componenti integraliste dell'islamismo, trova la sua origine, in prima istanza, nel progetto di destabilizzazione dell'Africa sahariana e subsahariana finanziato con i petroldollari di sceicchi ed emiri amici dell'Occidente, in un intreccio affaristico di armamenti e materie prime (pane dell'Africa) dai risvolti economici pesantissimi. Ciò spiega, altresì, come mai i destini della regione del Sahel possano risultare decisivi non solo per i capataz francesi, ma perfino attrarre la longa manus dell'Ue, che a breve interverrà con propri contingenti di ausilio e/o supervisione. Non stupisca, pertanto, il "tradimento" da parte dell'Algeria (anticipato, per di più, dalla visita ad Algeri di Catherine Ashton lo scorso 6 novembre), che si è impegnata a concedere ai francesi il proprio spazio aereo per gli attacchi al paese: se è vero che questo atteggiamento costituisce pur sempre una mortificazione dello spirito di lotta collettiva ed autodeterminazione dall'oppressione coloniale del capitale, che aveva animato l'Africa del secondo dopoguerra, dall'altra parte esso ben si inquadra nel disegno di rovesciamento delle deboli maglie degli equilibri panafricani, dei quali Gheddafi era stato tra i primi tessitori. Tutto si tiene.
Come spesso accade, vizi e virtù si palesano, dopo essersi nascoste, all'interno dello stesso ragionamento. La "virtù", se così si può chiamare, risiede nella semplice circostanza che l'intervento militare nel Sahel non ha scosso molte coscienze in madrepatria, fatta eccezione per l'opposizione dei comunisti e del Front de Gauche. I vizi, molteplici, si annidano nei numerosi gangli, procedurali ma non solo, che hanno scandito il ritorno francese al neocolonialismo africano. In primis, la legittimità stessa di un intervento armato su richiesta di un governo precario, instauratosi a seguito di un colpo di stato. A ciò si aggiunga che le Nazioni Unite avevano autorizzato l'intervento dei soli "caschi blu", composti esclusivamente da contingenti locali, allo scopo di sedare il conflitto civile animatosi da tempo nel nord del paese. L'intervento francese, approvato al solito dai sicari Nato, si è pertanto tradotto in una palese violazione degli obblighi internazionali di non ingerenza.
Non bisogna perdere di vista, tuttavia, che il conflitto etnico maliano, secondo il think thank euroamericano fomentato dalle componenti integraliste dell'islamismo, trova la sua origine, in prima istanza, nel progetto di destabilizzazione dell'Africa sahariana e subsahariana finanziato con i petroldollari di sceicchi ed emiri amici dell'Occidente, in un intreccio affaristico di armamenti e materie prime (pane dell'Africa) dai risvolti economici pesantissimi. Ciò spiega, altresì, come mai i destini della regione del Sahel possano risultare decisivi non solo per i capataz francesi, ma perfino attrarre la longa manus dell'Ue, che a breve interverrà con propri contingenti di ausilio e/o supervisione. Non stupisca, pertanto, il "tradimento" da parte dell'Algeria (anticipato, per di più, dalla visita ad Algeri di Catherine Ashton lo scorso 6 novembre), che si è impegnata a concedere ai francesi il proprio spazio aereo per gli attacchi al paese: se è vero che questo atteggiamento costituisce pur sempre una mortificazione dello spirito di lotta collettiva ed autodeterminazione dall'oppressione coloniale del capitale, che aveva animato l'Africa del secondo dopoguerra, dall'altra parte esso ben si inquadra nel disegno di rovesciamento delle deboli maglie degli equilibri panafricani, dei quali Gheddafi era stato tra i primi tessitori. Tutto si tiene.