Insomma, l'attribuzione del Nobel per la Pace all'Unione Europea, motivato con i suoi "sforzi per l'avanzamento della pace, della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani", non ha mancato di suscitare dibattiti ed osservazioni delle più variegate. Opinioni che, il più delle volte, sono apparse infeconde e del tutto soporifere. Nella maggior parte dei casi, esse si sono soffermate sul carattere salvifico che un simile riconoscimento potrebbe avere per le sorti dell'Unione: e, sinceramente, non vedo come. Nei casi marginali, invece, tali osservazioni hanno tentato di indagare sulle cause profonde, storicamente determinatesi, che hanno indotto la giuria a decidere in tal senso: arrivando, addirittura, a concludere che solo grazie all'Ue, per la contingenza economica che si è verificata nel vecchio continente, si è sventata una guerra civile europea che, in presenza di altre condizioni geopolitiche e sociali, sarebbe stata inevitabile. Nemmeno questo argomento, a ben vedere, persuade. Anche perchè la guerra, checchè ne dicano gli autorevoli commentatori, continua ad essere uno dei più utilizzati mezzi di risoluzione delle controversie internazionali, sia essa militare o semplicemente psicologica. In barba ai principi inderogabili di ripudio delle strumento bellico sanciti da numerose carte costituzionali (ivi compresa la nostra). Con la sola differenza che, anzichè stagliarsi sul terreno d'Europa, il conflitto è stato trasferito sul suolo di Tripoli (e ben presto lo scenario si ripeterà a Damasco) con la partecipazione strategicamente decisiva dell'Unione stessa.
Quello del Nobel è un falso problema. O perlomeno, è un problema qualora lo si inquadri nella prospettiva strumentale che più gli si addice: quella propagandistico-apologetica. E' stato così per Obama, tre anni or sono, per Liu Xiaobo due anni fa, ed è stato così anche in tempi meno recenti (insomma, qualcosa vorrà pur dire se a vincerlo è stato perfino un personaggio mefistofelico come Kissinger). Ma, al di fuori di questa angolatura, l'argomento del premio non sembra certo il propulsore ideale di un discorso più ampio. Piuttosto, varrebbe la pena chiedersi cosa resti, oggi, del progetto di unificazione europea vagheggiato appena un decennio fa. Sulla base di quelle premesse culturali, l'Europa sarebbe dovuta diventare il nucleo di riferimento per le pretese di progresso delle società più avanzate e per le istanze di riscatto dei centri più arretrati dal punto di vista del cammino civile. E' successo, invece (sebbene tale deriva fosse già stata anticipata dai punti programmatici dei trattati istitutivi dell'Unione monetaria), che l'Europa è diventata l'accozzaglia perfetta degli interessi particolari di un ristrettissimo gruppo di privilegiati (per diritto di natura? non si sa), quali, in primo luogo, gli istituti bancari ed i panzer della finanza globale con think thank al seguito. Il macrorisultato più evidente di un simile processo è stato, ovviamente, il dissolvimento dello stato sociale di diritto così come concepito nel secondo dopoguerra.
Ciò che più ha colpito, nel corso di questo marasma decennale, è stata l'apatia avvolgente con la quale i cittadini europei hanno accolto questo elemento di novità. Una indifferenza pressochè generale, se si eccettuano le proteste feroci e scandite nel tempo dalle minoranze greche e, in parte, spagnole (di cui spesso abbiamo detto). Probabilmente perchè, a differenza di quanto accaduto negli anni del vero conflitto sociale, dove lo Stato era visto come il legale oppressore di tutte le rivendicazioni popolari sino al soffocamento delle istanze rivoluzionarie, lo spostamento dei termini del conflitto ad una istanza sovranazionale è avvenuto in maniera pressochè pacifica: con una negoziazione, salutata anche con favore. In tal modo la polverizzazione dei diritti basilari ha assunto confini assolutamente legalitari, assicurata com'era dalla presunta, anzi teorizzata in via giurisprudenziale, prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale. Giocoforza, la sostituzione della sussidiarietà con l'abolizione vera e propria della sovranità nazionale ne è stata la più logica conseguenza. Per quanto dovrà durare ancora questa spoliazione, accentuata dalla carica pressochè mistica dei Nobel e dalla inettitudine degli europei? Anzichè indagare su quale personalità sia la più accreditata a ricevere il premio, sarebbe forse il caso di imparare la lezione di Gramsci, che qualche giorno fa un eminente intellettuale tedesco ha ricordato ad ogni cittadino che si rispetti: contrapporre l'ottimismo della volontà al pessimismo dell'intelligenza.
Quello del Nobel è un falso problema. O perlomeno, è un problema qualora lo si inquadri nella prospettiva strumentale che più gli si addice: quella propagandistico-apologetica. E' stato così per Obama, tre anni or sono, per Liu Xiaobo due anni fa, ed è stato così anche in tempi meno recenti (insomma, qualcosa vorrà pur dire se a vincerlo è stato perfino un personaggio mefistofelico come Kissinger). Ma, al di fuori di questa angolatura, l'argomento del premio non sembra certo il propulsore ideale di un discorso più ampio. Piuttosto, varrebbe la pena chiedersi cosa resti, oggi, del progetto di unificazione europea vagheggiato appena un decennio fa. Sulla base di quelle premesse culturali, l'Europa sarebbe dovuta diventare il nucleo di riferimento per le pretese di progresso delle società più avanzate e per le istanze di riscatto dei centri più arretrati dal punto di vista del cammino civile. E' successo, invece (sebbene tale deriva fosse già stata anticipata dai punti programmatici dei trattati istitutivi dell'Unione monetaria), che l'Europa è diventata l'accozzaglia perfetta degli interessi particolari di un ristrettissimo gruppo di privilegiati (per diritto di natura? non si sa), quali, in primo luogo, gli istituti bancari ed i panzer della finanza globale con think thank al seguito. Il macrorisultato più evidente di un simile processo è stato, ovviamente, il dissolvimento dello stato sociale di diritto così come concepito nel secondo dopoguerra.
Ciò che più ha colpito, nel corso di questo marasma decennale, è stata l'apatia avvolgente con la quale i cittadini europei hanno accolto questo elemento di novità. Una indifferenza pressochè generale, se si eccettuano le proteste feroci e scandite nel tempo dalle minoranze greche e, in parte, spagnole (di cui spesso abbiamo detto). Probabilmente perchè, a differenza di quanto accaduto negli anni del vero conflitto sociale, dove lo Stato era visto come il legale oppressore di tutte le rivendicazioni popolari sino al soffocamento delle istanze rivoluzionarie, lo spostamento dei termini del conflitto ad una istanza sovranazionale è avvenuto in maniera pressochè pacifica: con una negoziazione, salutata anche con favore. In tal modo la polverizzazione dei diritti basilari ha assunto confini assolutamente legalitari, assicurata com'era dalla presunta, anzi teorizzata in via giurisprudenziale, prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale. Giocoforza, la sostituzione della sussidiarietà con l'abolizione vera e propria della sovranità nazionale ne è stata la più logica conseguenza. Per quanto dovrà durare ancora questa spoliazione, accentuata dalla carica pressochè mistica dei Nobel e dalla inettitudine degli europei? Anzichè indagare su quale personalità sia la più accreditata a ricevere il premio, sarebbe forse il caso di imparare la lezione di Gramsci, che qualche giorno fa un eminente intellettuale tedesco ha ricordato ad ogni cittadino che si rispetti: contrapporre l'ottimismo della volontà al pessimismo dell'intelligenza.