E' sempre un'avventura commentare le ardite parabole dialettali di questo Governo di rimpiazzo, anche quando, magari, dall'altra parte i tre moschettieri delle primarie giochicchiano a spruzzarsi coi limoni senza, per carità, disturbare il padrone di casa, ma anzi condividendone in toto regole e regime, e contribuendo in sostanza alla loro applicazione. Il fatto è che, non appena qualche autorevole rappresentanza dell'Esecutivo si appresta ad aprir bocca, sei come ammantato da un'aura di trascendenza, da una sensibile capacità di previsione delle loro capriole verbali. Il problema vero è che, pur sapendolo, molti preferiscono non saperlo; e che, anche quando l'hanno saputo, preferiscono far finta che sia stato detto qualcosa d'altro. E il riferimento, ovviamente, è alle grandi firme scultoree del circuito mass-mediatico, che l'informazione dovrebbero farla, e che invece sembrano (sono) interamente preoccupate dalle modalità con le quali incidere meglio di ogni altro i loro incensamenti, manco fossero dei novelli Durer.
Certo che quel gran pezzo dell'Elsa non sa più come inventarsele. O meglio, lo sa fin troppo, ma preferisce arrotondare le cartucce con la patina gagà dell'inglese trendy, pur ripescando gli atteggiamenti dal cassetto ammuffito di un "galateo" da Ventennio. E sì, chiamiamole pure col loro bel nome, le cose. E non ci sarebbe nemmeno bisogno di mettere mano, analiticamente parlando, alla spending review ed alle politiche sociali dei professori per capire di quale tipo di violenza stiamo parlando. Nè tantomeno rivangare il proverbiale passato, sia pure recente, per dissotterrare il bastone e la carota di Profumo, quello che vaneggia dei tablet nelle classi dopo aver polverizzato dalle fondamenta i presupposti minimi dell'istruzione di base. Ma c'è una cosa che, più di ogni altra, testimonia il distacco sempre più lontano, anzi incolmabile, sia verbale che fisico, della politica e del mondo cosiddetto "intellettuale" dalla vita reale. E che palesa la pervadente cultura patibolare che permea l'apparato dirigente (presente, ma anche futuro).
Ed è stato l'elogio, tanto sottovalutato quanto brutale, del ministro della Giustizia Paola Severino al "Codice Rocco", il codice di diritto penale della dittatura fascista realizzato da Alfredo Rocco, fra gli artefici dell'apparato teorico dello "Stato etico". Quell'apparato normativo, agnostico nelle premesse, articolato nella struttura, feroce nelle sanzioni, ancora oggi echeggia in gran parte delle disposizioni penali tuttora in vigore. Ora, quella lode poteva essere anche riferita a qualche aspetto particolare, ma in nessun modo la sostanza può cambiare: perchè non puoi mai scindere il particolare dal generale (in un'operazione dialetticamente e storicamente abominevole: così sono sistemati anche quelli che farfugliano di un sedicente "fascismo buono"). Ma ciò che più occorre sottolineare, è che sia stata rimarcata l'assoluta bontà di quell'opera, con riferimento alla personalità che l'aveva realizzata: un "tecnico". il "tecnicismo", dunque, come valore assoluto ed incrollabile, come "altro" rispetto alla comune normalità (ce l'avete presente la scena de "Il Marchese del Grillo"? Proprio quella). A dispetto dei fatti, andrebbe aggiunto.
Una postilla: tre anni e due giorni fa, il 22 Ottobre 2009, moriva Stefano Cucchi, a seguito di una dinamica tanto controversa quanto drammaticamente sconvolgente. Va da sè il tempismo di un'uscita come quella del Guardasigilli, a fronte di persone, come i familiari di Cucchi, che da anni si battono tra i gangli di un processo che stenta a decollare, costretti altresì a scontrarsi con l'assenza, nel nostro sistema penale, di una norma che sancisca espressamente il "divieto di tortura": da parte di chi il potere lo esercita, protetto dalla cortina di ferro della "legalità".
Certo che quel gran pezzo dell'Elsa non sa più come inventarsele. O meglio, lo sa fin troppo, ma preferisce arrotondare le cartucce con la patina gagà dell'inglese trendy, pur ripescando gli atteggiamenti dal cassetto ammuffito di un "galateo" da Ventennio. E sì, chiamiamole pure col loro bel nome, le cose. E non ci sarebbe nemmeno bisogno di mettere mano, analiticamente parlando, alla spending review ed alle politiche sociali dei professori per capire di quale tipo di violenza stiamo parlando. Nè tantomeno rivangare il proverbiale passato, sia pure recente, per dissotterrare il bastone e la carota di Profumo, quello che vaneggia dei tablet nelle classi dopo aver polverizzato dalle fondamenta i presupposti minimi dell'istruzione di base. Ma c'è una cosa che, più di ogni altra, testimonia il distacco sempre più lontano, anzi incolmabile, sia verbale che fisico, della politica e del mondo cosiddetto "intellettuale" dalla vita reale. E che palesa la pervadente cultura patibolare che permea l'apparato dirigente (presente, ma anche futuro).
Ed è stato l'elogio, tanto sottovalutato quanto brutale, del ministro della Giustizia Paola Severino al "Codice Rocco", il codice di diritto penale della dittatura fascista realizzato da Alfredo Rocco, fra gli artefici dell'apparato teorico dello "Stato etico". Quell'apparato normativo, agnostico nelle premesse, articolato nella struttura, feroce nelle sanzioni, ancora oggi echeggia in gran parte delle disposizioni penali tuttora in vigore. Ora, quella lode poteva essere anche riferita a qualche aspetto particolare, ma in nessun modo la sostanza può cambiare: perchè non puoi mai scindere il particolare dal generale (in un'operazione dialetticamente e storicamente abominevole: così sono sistemati anche quelli che farfugliano di un sedicente "fascismo buono"). Ma ciò che più occorre sottolineare, è che sia stata rimarcata l'assoluta bontà di quell'opera, con riferimento alla personalità che l'aveva realizzata: un "tecnico". il "tecnicismo", dunque, come valore assoluto ed incrollabile, come "altro" rispetto alla comune normalità (ce l'avete presente la scena de "Il Marchese del Grillo"? Proprio quella). A dispetto dei fatti, andrebbe aggiunto.
Una postilla: tre anni e due giorni fa, il 22 Ottobre 2009, moriva Stefano Cucchi, a seguito di una dinamica tanto controversa quanto drammaticamente sconvolgente. Va da sè il tempismo di un'uscita come quella del Guardasigilli, a fronte di persone, come i familiari di Cucchi, che da anni si battono tra i gangli di un processo che stenta a decollare, costretti altresì a scontrarsi con l'assenza, nel nostro sistema penale, di una norma che sancisca espressamente il "divieto di tortura": da parte di chi il potere lo esercita, protetto dalla cortina di ferro della "legalità".