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Il romanticismo postmoderno del calcio

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Category: Editoriali
By Giovanni Apadula
Giovanni Apadula
18.Apr
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pallone_rete34In questi giorni si è detto, e letto, tutto ed il contrario di tutto sulla morte dello sfortunato giocatore del Livorno Piermario Morosini. Più volte alla tv sono passate le immagini del suo crollo inesorabile, del tentativo di riprendere linfa e vita, della nuova caduta, ed infine del tonfo definitivo e certo, come solo la morte può essere. Intere trasmissioni sportive sono state dedicate all'evento luttuoso, fiumi di pellicola incentrati sul buco nero di quella morte, spinta sino al parossismo, addirittura riproposizioni della sua prima partita in serie A con tanto di commento personalizzato. O intromissioni, a tratti invasive, nel profilo pubblico e nella vita privata di un ragazzo che aveva fatto di tutto per restare nell'ombra, e che mai avrebbe immaginato che il cinismo della finitezza umana avrebbe eroso quel senso mirabile del pudore che il tempo, e la vita stessa, avevano sedimentato e scolpito nel suo carattere.

Mi è capitato di leggere auterovoli minestroni nei quali questa morte, una morte di calcio, viene affiancata a Sla, sostanze dopanti, depressioni, artrosi o tumori epatici, come se per ciascuna di queste cose esistesse un rapporto necessario di causa-effetto che le unisce inestricabilmente. Il tutto in nome dell'ipocrisia di uno sport, il calcio, che si presume essere tutta italiana, così come italiana è, innegabilmente, l'abitudine di esasperare i drammi in un vortice irrazionale, preda immarcescibile di ondate emotive che, forse, nessun altro paese al mondo sa regalare. E di ciò il caso-Morosini ne costituisce l'emblema più tangibile.

Ci si chiede se, ancora oggi, sia davvero possibile morire di calcio. Una domanda alla quale sembra difficile rispondere, soprattutto se si crede che questo calcio, anche quello odierno in preda al business sfrenato del circuito neoliberista, possa sul serio considerarsi una religione popolare. Non è mai esistito al mondo, e lo ricordava il compianto scrittore catalano M.V. Montalbàn, uno sport nel quale le pulsioni individuali potessero fondersi con quelle di una collettività di qualsiasi forma, paese-città-nazione, come il calcio. Solo questo sport ha saputo regalare una simbiosi eccezionale tra l'osservatore, il protagonista e la comunità di appartenenza. E ciò era evidente soprattutto quando l'identificazione con un determinato club acquisiva in corrispondenza anche un pregnante impegno politico. Nella Spagna franchista Real Madrid ed Espanyol hanno sempre rappresentato le avanguardie del potere centrale, mentre il Barcellona accoglieva tra i suoi ranghi tutti i perdenti della guerra civile, il sottoproletariato e la sinistra clandestina. Poche città al mondo sono in grado di capire una simile immedesimazione: Bilbao, roccaforte del separatismo abertzale. E Livorno, la città burbera, rossa e scanzonata, la città di Morosini. Di questa religione pop i calciatori sono stati i suoi più facili profeti.

A questi dei è molto spesso toccato il compito di giocare match impossibili, calciare rigori impensabili, o avventurarsi in quell'estremo gesto di libertà che è il dribbling contro avversari invalicabili. Ed ai loro miracoli è stato facile credere in un'epoca che ha sofferto, e ancora soffre, di un vuoto di ideologie, un ridimensionamento della militanza politica, una crisi di prospettive delle religioni tradizionali. Molto spesso, dal loro empireo di dei minori, ai calciatori è toccato anche un riscatto delle proprie genti, contro le angherie di un'esistenza grama e le sue contraddizioni laceranti. Come quelle dell'America Latina della dittatura militare, contro cui Osvaldo Soriano fa scendere in campo i suoi personaggi scalcinati: dal mediano uruguagio Obdulio Varela (fustigatore dell'imbattibile Brasile ai Mondiali del '50) all'eclettico Peregrino Fernandez, passando per gli indios militanti in squadre situate alla periferia del mondo, e che ogni domenica si dedicano al pallone proprio come ogni fedele si reca devoto in Chiesa per obbedire al comandamento evangelico.

Forse è per questo che le dittature ed i totalitarismi hanno cercato in ogni modo di servirsi del calcio come instrumentum regni, senza mai riuscire a soggiogarlo: perchè, in un modo o in un altro, hanno dovuto fare i conti con i suoi personaggi eclettici e dinamitardi, imprevedibili sino all'impossibile. "Il nano impartisce la lezione al gigante, un nero sbilenco fa diventare scemo l'artista scolpito in Grecia", ricordava Eduardo Galeano. Peccato che, a volte, anche i suoi epigoni paghino il crimine di lesa maestà. Come l'Alberto Palacìn immaginario di Montàlban, campione un tempo, anonimo "puntero" squattrinato poi, deciso a riprendersi quel posto al sole che solo una morte sordida gli negherà, una morte dal cinismo che ignora se stesso. Quella che ha portato via Piermario Morosini.

"Perchè avete usurpato il ruolo degli dèi che in altri tempi guidarono la condotta degli uomini...perchè il vostro centravanti vi fa gestire vittorie e sconfitte dalla comoda poltrona di cesari minori: il centravanti verrà ucciso all'imbrunire".
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