EDITORIALE. Tra kermesse di fine estate e festicciole improvvisate all'ombra di un blasone ormai sbiadito, la stagione politica riapre i battenti dopo le immeritate vacanze istituzionali, con un'agenda infittita e rimpolpata da una crisi finanziaria dalla quale non si vede uscita. Diceva bene, ieri, Angelo Di Marino nel suo editoriale su "La Città": "cosa avranno i partiti da festeggiare in un paese completamente prostrato sulle sue ginocchia? Quale altra risposta fornire se non quella di un tran-tran periodico ormai del tutto autoreferenziale e adagiato su se stesso?" Mai come in questi anni la politica istituzionale è distante anni luce dalla società civile. Mai come in questo lungo ventennio che sembra non finire mai, ci sembra necessario ed imprescindibile un approfondimento, e magari un ripensamento, della nozione di democrazia diretta e del concetto-base di autogoverno, strettamente correlato a quello di "territorio".
Si badi bene, è un'analisi che prescinde volutamente dagli uomini in cravatta che siedono nelle dorate stanze di piazza Montecitorio o Palazzo Madama. L'involuzione verticale di questo paese è frutto di uno scadimento qualitativo del discorso politico e culturale che non trova precedenti nemmeno nei periodi più bui della storia della penisola. Da un lato il satrapo arcoriano che incarna perfettamente le strutture del potere centrale, arrogante ed oppressivo, in tutte le sue sfaccettature e declinazioni. Dall'altro un'opposizione del tutto inabile ad approntare un serio discorso di alternativa, ed ormai abituata a fondare le sue avulse proposte patinate di insulso moralismo sul terreno dell'anti-berlusconismo più scontato ed accattone. Prova ne siano le intercettazioni recentemente venute a galla che vedono ancora una volta coinvolto il Premier. Che Berlusconi rappresenti quanto di peggio questo paese abbia espresso a livello di cariche dirigenti dal dopoguerra in poi è un dato di fatto dal quale è difficile poter sfuggire. Ma da qui a volerne decretare, o meglio determinare, la caduta per storie di letto e corruzione, anche sessuale, ce ne corre parecchio. Si rischia di non vedere la struttura incancrenita del potere che egli rappresenta, e che chiunque altro, al suo posto, può rappresentare. La differenza si esprime tutta nel criterio valutativo che andiamo ad utilizzare.
Un esempio calza a pennello: chi è stato, almeno negli ultimi 15 anni, il principale antagonista di Berlusconi sul terreno dello scontro-politico istituzionale? Facile, la magistratura e l'ordine giudiziario tutto incarnati, a livello politico, da Antonio Di Pietro. Lo stesso Di Pietro, oggi osannato ed inneggiato come insperato leader del centro-sinistra tutto; la stessa magistratura vista come argine e speranza allo straripare del dominio berlusconiano. Come è stato possibile tutto questo? Facile individuarne l'origine nel Febbraio 1992, allo scoppio dello scandalo Tangentopoli. Un po' più complesso tratteggiarne l'evoluzione. Ci spieghiamo. L'emergere di quella corruzione diffusa nell'ambito della pubblica amministrazione ha costituito un argomento di facilissima presa sull'uditorio sensibile dei cittadini, permettendo alla giustizia, specie quella penale, di ergersi a struttura garante di diritti e facoltà civiche e a meccanismo supremo di tutela della legalità tout court. E' successo, dunque, che la magistratura si è "politicizzata", nel senso che ha assunto un ruolo incontrovertibile anche nell'ambito della dialettica politica, proprio perché spesso chiamata a pronunciarsi su scandali e querelle che investivano pubblici amministratori. La giustizia, dunque, come esercizio di resistenza contro l'arbitrio e l'arroganza del potere centrale.
E' in questo momento che, probabilmente, il discorso politico è caduto verso il basso. Non ci si è accorti che quello che andava prospettandosi era comunque uno scontro tra poteri, sia pure posti a livelli diversi. Con l'argomento facile della regola (meglio, della legge, che è sempre fatta dal più forte) si è cercato di rendere intelligibile il meccanismo della dialettica politica, scoperchiando le magagne del premier ed offrendone al tempo stesso la soluzione. Perché questo? Perché ci si è ostinati ad adottare come criterio principe quello del "controllo giudiziario": alla sostanza del politico si è sostituita così la forma del tecnicismo giustizialistico spesso eccessivo, a volte insopportabilmente moralistico, identificando nella legge anche la giustizia sostanziale. Fin quando la società civile non saprà riprendere coscienza, facendo quel salto di qualità necessario per riappropriarsi in via definitiva del suo ruolo, il potere è destinato a cambiare semplicemente casacca.
Si badi bene, è un'analisi che prescinde volutamente dagli uomini in cravatta che siedono nelle dorate stanze di piazza Montecitorio o Palazzo Madama. L'involuzione verticale di questo paese è frutto di uno scadimento qualitativo del discorso politico e culturale che non trova precedenti nemmeno nei periodi più bui della storia della penisola. Da un lato il satrapo arcoriano che incarna perfettamente le strutture del potere centrale, arrogante ed oppressivo, in tutte le sue sfaccettature e declinazioni. Dall'altro un'opposizione del tutto inabile ad approntare un serio discorso di alternativa, ed ormai abituata a fondare le sue avulse proposte patinate di insulso moralismo sul terreno dell'anti-berlusconismo più scontato ed accattone. Prova ne siano le intercettazioni recentemente venute a galla che vedono ancora una volta coinvolto il Premier. Che Berlusconi rappresenti quanto di peggio questo paese abbia espresso a livello di cariche dirigenti dal dopoguerra in poi è un dato di fatto dal quale è difficile poter sfuggire. Ma da qui a volerne decretare, o meglio determinare, la caduta per storie di letto e corruzione, anche sessuale, ce ne corre parecchio. Si rischia di non vedere la struttura incancrenita del potere che egli rappresenta, e che chiunque altro, al suo posto, può rappresentare. La differenza si esprime tutta nel criterio valutativo che andiamo ad utilizzare.
Un esempio calza a pennello: chi è stato, almeno negli ultimi 15 anni, il principale antagonista di Berlusconi sul terreno dello scontro-politico istituzionale? Facile, la magistratura e l'ordine giudiziario tutto incarnati, a livello politico, da Antonio Di Pietro. Lo stesso Di Pietro, oggi osannato ed inneggiato come insperato leader del centro-sinistra tutto; la stessa magistratura vista come argine e speranza allo straripare del dominio berlusconiano. Come è stato possibile tutto questo? Facile individuarne l'origine nel Febbraio 1992, allo scoppio dello scandalo Tangentopoli. Un po' più complesso tratteggiarne l'evoluzione. Ci spieghiamo. L'emergere di quella corruzione diffusa nell'ambito della pubblica amministrazione ha costituito un argomento di facilissima presa sull'uditorio sensibile dei cittadini, permettendo alla giustizia, specie quella penale, di ergersi a struttura garante di diritti e facoltà civiche e a meccanismo supremo di tutela della legalità tout court. E' successo, dunque, che la magistratura si è "politicizzata", nel senso che ha assunto un ruolo incontrovertibile anche nell'ambito della dialettica politica, proprio perché spesso chiamata a pronunciarsi su scandali e querelle che investivano pubblici amministratori. La giustizia, dunque, come esercizio di resistenza contro l'arbitrio e l'arroganza del potere centrale.
E' in questo momento che, probabilmente, il discorso politico è caduto verso il basso. Non ci si è accorti che quello che andava prospettandosi era comunque uno scontro tra poteri, sia pure posti a livelli diversi. Con l'argomento facile della regola (meglio, della legge, che è sempre fatta dal più forte) si è cercato di rendere intelligibile il meccanismo della dialettica politica, scoperchiando le magagne del premier ed offrendone al tempo stesso la soluzione. Perché questo? Perché ci si è ostinati ad adottare come criterio principe quello del "controllo giudiziario": alla sostanza del politico si è sostituita così la forma del tecnicismo giustizialistico spesso eccessivo, a volte insopportabilmente moralistico, identificando nella legge anche la giustizia sostanziale. Fin quando la società civile non saprà riprendere coscienza, facendo quel salto di qualità necessario per riappropriarsi in via definitiva del suo ruolo, il potere è destinato a cambiare semplicemente casacca.