EDITORIALE. Sono trascorse due settimane appena dalle ostentate celebrazioni del decennale dell'11 Settembre, e tanto è bastato per trovare conferma del fatto che gli Stati Uniti adoperino qualsiasi evento (spettacolo) a motivo scatenante di ogni genere di crimine e misfatto. L'occasione, questa volta, è stata propizia per lanciare il solito anatema contro il nemico invisibile del "terrorismo islamico", allo scopo di forzare, e possibilmente di concludere senza pietà, l'ennesima campagna guerrafondaia lanciata 6 mesi orsono sui cieli di Libia. Proprio il paese africano si presta, e benissimo, a fungere da emblema lampante di una dottrina politica internazionalistica che gli States portano ormai avanti da poco più di 3 secoli a questa parte. E' il 1812 quando i neonati Stati Uniti d'America decidono di invadere il Canada, sulla base di presunti attacchi provenienti da indiani stanziati oltreconfine. Obiettivo finale: annettere lo stato canadese. Al di là dell'insuccesso dell'operazione, giova sottolineare quanto veniva affermato nel primo documento ufficiale della neonata nazionale, la Dichiarazione d'indipendenza americana del 4 Luglio 1776. In essa è infatti contenuto un feroce attacco nei confronti del vecchio sovrano, il re d'Inghilterra, ritenuto colpevole di "istigare contro gli abitanti delle nostre zone di frontiera i crudeli selvaggi indiani, la cui ben nota norma di guerra è la distruzione indiscriminata di tutti gli avversari, di ogni età, sesso e condizione". Si tratta della stessa Dichiarazione universalmente nota come la culla dei primi germi di liberalismo giuridico e di dirittoumanismo. Peccato però che, la stessa, non abbia alcuna rilevanza giuridica. Nessuno, infatti, dei contenuti del suo preambolo è stato successivamente trasfuso nella Costituzione ufficiale degli Stati Uniti d'America, questa si pienamente valida ed efficace dal punto di vista del diritto positivo. Secondo diritto, infatti, il Presidente americano può sospendere sine die le garanzie costituzionali di un cittadino degli States perchè accusato di essere "terrorista". Il terrorismo è stato, storicamente, l'alibi per eccellenza per ogni missione internazionale degli USA, ed il terrorista il perfetto capro espiatorio. Con le opportune varianti dettate dalle specificità contingenti che ogni missione deve affrontare, anche la guerra in Libia costituisce un'ennesima, perfetta declinazione di questa dottrina. Con il pretesto di presunte violazioni di diritti umani (registrate senza che venisse inviata in loco una ONG o qualsiasi personalità politica competente o indipendente a verificare), i gendarmi statunitensi hanno potuto così sferrare il terzo attacco nell'arco di dieci anni, dopo aver raso al suolo Iraq ed Afghanistan. Illuminante è stato, a suo tempo, il commento di Richard Falk, eminente studioso di diritto internazionale ed attualmente relatore speciale dell'Onu per i diritti dei Palestinesi: "L'obbligo legale fondamentale della carta delle Nazioni Unite richiede che gli stati membri si astengano dall'uso della forza di qualsiasi tipo, a meno che non venga giustificato come auto-difesa dopo un attacco armato al di là del confine oppure avendo un mandato avuto su deliberazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Nessuna di queste due condizioni che autorizzano l'uso legale della forza è neanche lontanamente presente, e tuttavia la discussione sui media e nei circoli politici di Washington va avanti come se gli unici problemi degni di discussione fossero quelli riguardanti la fattibilità, i costi, i rischi, e possibili conseguenze nel mondo arabo. La mentalità imperiale non è incline a discutere la questione della legalità, e non dimostra neanche un comportamente rispettoso dei vincoli insiti nella legge internazionale". Dopo 6 mesi di dura battaglia, la situazione in Libia è precipitata: dal caos all'anarchia più subdola. Nel frattempo il FMI ha ratificato il riconoscimento del nuovo governo libico (nel quale siedono ex luogotenenti di quel Gheddafi che si vuole eliminare, nonchè esponenti di spicco della stessa Al Qaeda), auspicando un avvenire di "riforme", nonostante la Libia fosse il paese africano con il più alto PIL pro capite. Evidentemente il riferimento era alle enormi riserve auree del paese, che potrebbero ripagare con gli interessi le spese belliche sostenute dalla NATO. Il tutto, nel silenzio complice dei media e dell'opinione pubblica occidentale, che continuano a biasimare le efferate crudeltà del Raìs e a compiacersi dell'ennesima strage di civili innocenti. Parliamo anche dell'elefante, avrebbe detto Longanesi.
Il presidente tiranno

Donald Trump sta sfidando le peggiori categorie più consolidate della politica tradizionale,
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