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Lavoro, chiamatela pure Controriforma

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Category: Editoriali
By Giovanni Apadula
Giovanni Apadula
27.Mar
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Più che una riforma, l'offensiva primaverile portata avanti dal governo dei tecnocrati ha il sapore di una "controriforma" in grande stile: una reazione sdegnata, arrogante, a quella primavera delle conquiste sindacali che furono gli anni '70. Il ddl è stato ufficialmente approvato dal consiglio dei ministri, ed attende ora di essere discusso in Parlamento per il là definitivo. Poca fuffa quella delle parti sindacali, con la Cgil ormai ridotta a difendere la foglia di fico dell'articolo 18, vale a dire la parte mediaticamente più forte del provvedimento, e la sola FIOM ad opporsi al calderone caotico che l'esecutivo vuole introdurre nell'arco normativo. E' questo, purtroppo, il ritratto attuale e angosciante delle rappresentanze sindacali dei lavoratori, nel quadro di una concertazione, di una contrattazione che dovrebbe svolgersi su di un piano di parità, ma che viene puntualmente disattesa. I "tecnici" viaggiano spediti, come quei treni ad alta velocità che allo stesso modo vogliono imporre anche nella roccaforte valsusina: con l'uso intimidatorio della forza (pubblica e politica).

La malsana informazione che circola sulla riforma costituisce la cornice perfetta del clima plumbeo ed autoritario in cui essa si svolge. Dalle colonne dei più prestigiosi quotidiani nazionali fior di notisti si arrovellano dialetticamente sulla "necessità" del provvedimento, sulle urgenze concrete della revisione del mercato del lavoro, in senso ovviamente peggiorativo per le condizioni dei lavoratori. Dalle pagine della sua Repubblica, Scalfari sottolinea, in un impeto di senilità che "il peso e l'importanza dell'art.18 è irrilevante", e che sia lui che il suo giornale "hanno appoggiato sin dall'inizio il governo Monti". Sul Europa Quotidiano, ripreso dal Post, Andrea Menichini dichiara addirittura che "il Pd rappresenta la speranza del mondo del lavoro di ammodernarsi zenza lasciare nessuno indietro, anzi includendo la galassia degli esclusi". Eccolo il dato discriminate, indispensabile da tener presente: il fatto che la ricostruzione politica e giuridica del mondo-lavoro sia fatta pur sempre sulla base di un sistema sociale, di una struttura economica alla cui origine vi è in ogni caso l'etica dell'individualismo proprietario: accumulare, introitare, capitalizzare. Non c'è spazio per idee di autonomia e comunanza.

All'interno di una formazione economica siffatta, alcuni tentano di fornire pezze d'appoggio ai loro blateramenti, vagheggiando di "modello tedesco" e "modello americano" dei licenziamenti, sostenendo che, nel primo riferimento, in caso di licenziamento per motivi economici, non ci sarebbe più reintegro ma indennizzo. Niente di più falso, visto che il diritto tedesco, da secoli specchio fedelissimo di quel grande monumento che fu il ius romanorum, lascia la più ampia discrezionalità al magistrato del lavoro nella scelta del reintegro del lavoratore escluso o della corresponsione di un equo indennizzo. Dunque, oltre che abbandonati al proprio destino dai contrattatori da loro investiti, su quali riferimenti mediatici possono contare i lavoratori italiani per avere una parvenza di difesa e di sostegno? Un problema solo relativo, se si tengono presenti le condizioni strutturali nelle quali si attesta il rapporto di lavoro.

Nessuno sembra avere il coraggio di contestualizzare questa "controriforma" nell'arco di un più ampio progetto criminale attuato da quest'esecutivo: vale a dire la tenaglia tra questa ristrutturazione del mercato del lavoro e la già completata riforma delle pensioni che, in tutt'uno con il progetto-fantasma della flexsecurity in programma solo nel 2017, dovrebbe produrre sin da subito indigenza, macelleria sociale. Persino Napolitano, ledendo in maniera gravissima la sua funzione di supremo garante della Carta Costituzionale, si è pronunziato sulla necessità di una "riforma da fare", irrompendo in modo determinante su di un provvedimento di chiarissimo indirizzo politico, e per ciò stesso a lui precluso. Snaturando i contenuti del suo incarico istituzionale, Napolitano sostiene che questa ristrutturazione è voluta "dall'Europa e dai mercati". Che cosa vogliono i mercati, caro Presidente? Forse sapere che, una volta ratificato per vie legali anche l'ennesimo attentato alla dignità dei lavoratori, forse il più grave, ogni forma di resistenza operaia e sindacale è stata definitivamente piegata?
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