EDITORIALE. Nel

2002 al Circo Massimo erano circa 3 milioni gli aderenti allo sciopero generale indetto dai sindacati contro le modifiche al testo dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Ad ormai nove anni di distanza, non sembra che le cose siano migliorate, e di motivi per scendere in piazza ce ne sarebbero in tanti, molti di più di quelli che il 18 Ottobre del 2002 portarono in piazza quei 3 milioni di lavoratori. Che cosa è cambiato, dunque, da quella data? Non la maggioranza di governo che, tra contrattazioni private e rimpasti istituzionali, resta saldamente al potere da 15 anni a questa parte. Non può dirsi cambiata nemmeno la sua strategia sanguinaria in ambito economico, cui può riconoscersi (come parzialissima discolpa) l'esigenza di adeguarsi alle misure decisionali imposte dall'Unione Europea in ambito economico. Viviamo una crisi che riflette in tutta la sua drammaticità l'involuzione strategica della linea comunitaria. Nella strategia di Lisbona, l'Unione si proponeva come obiettivo quello di diventare "l'economia più competitiva e dinamica basata sulla conoscenza, capace di una crescita economica sostenibile con maggiore e migliore occupazione ed una più grande coesione sociale". Si trattava, dunque, di un programma che presupponeva un periodo transitorio-programmatico, attraverso l'applicazione di politiche macroeconomiche su larga scala, riforme strutturali, completamento del mercato unico e modernizzazione del modello sociale europeo. Con la strategia "Europa 2020", programma da attuarsi nell'arco di un decennio dunque, la crescita comunitaria è stata principalmente inquadrata su 3 livelli: intelligente, equivalente cioè a crescita ed innovazione; sostenibile, come dire uso appropriato e razionale delle riserve disponibili; inclusiva, vale a dire una crescita ad "alta occupazione" tout court. Scompare dunque ogni riferimento alla coesione sociale ed alla "migliore occupazione", alla redistribuzione del reddito ed al miglioramente dei servizi di welfare su scala continentale. L'Europa ha rinunciato alle sue ambizioni originarie, con lo scellerato abbandono della "dimensione sociale" dello sviluppo, declinando anche l'esigenza di approntare meccanismi di difesa dalle speculazioni finanziarie, preferendo obbedire al dogma neoliberale delle riforme strutturali e della flessibilità. Le direttive comunitarie non possono dunque non riverberarsi anche sulle scelte dei singoli Stati membri. Mentre la Grecia tenta un difficilissimo salvataggio con la svendita del suo patrimonio demaniale ed altri stati si avviano mesti al cappio teso da BCE ed FMI, l'Italia tenta di dirottare, almeno in parte, lo scotto della crisi sulla demolizione del diritto del lavoro e delle conquiste civili e sindacali. Dal taglio ai contributi di solidarietà dei dipendenti pubblici a quelli alle amministrazioni locali, dalla spada di Damocla pendente sui capi delle cooperative alla "manumissio" extralegale della legge 300/1970, baluardo e base portante dei diritti dei lavoratori. Con la manovra infatti (art. 8, comma 2-bis), si apre la possibilità di derogare, con i contratti aziendali e territoriali, ai contratti nazionali ed alla legge. Deroga estendibile anche ai licenziamenti (fatta eccezione per quelli discriminatori), e dunque all'art.18 dello Statuto dei lavoratori. Per molto meno, forse, quei 3 milioni di cittadini si radunarono al Circo Massimo nel 2002. C'è in gioco non solo il destino di un paese, ma di un intero pianeta che rischia di essere trascinato nel vortice di una sfrenata tendenza al massacro sociale. Il 6 Settembre può essere una data decisiva, se solo fossimo in grado di trasformare questo tramonto d'estate in un inizio d'autunno bollente.