
La sospensione della partita di calcio tra Serbia ed Albania, a causa dei disordini scoppiati tra gli atleti sul terreno di gioco dello stadio "Partizan" di Belgrado, rappresenta il capitolo più recente del corposo volume delle tensioni che attraversano l'area della ex Yugoslavia e, più in generale, lo spazio post-sovietico. A provocare gli incidenti è stato un drone che ha sorvolato il rettangolo verde con una bandiera della Grande Albania, e non del Kosovo, come praticamente il 99% dei quotidiani ha riferito (al centro del vessillo, infatti, campeggiavano i ritratti degli eroi dell'indipendenza nazionale dall'Impero Ottomano, Boletini e Kemali). Quando, nel 1989, l'allora presidente yugoslavo Slobodan Milosevic abolì lo statuto di provincia riconosciuto al Kosovo, a maggioranza albanese, in seno alla Serbia, il fuoco dell'odio nazionalista cominciò nuovamente a tormentare il popolo dell'area balcanica. L'atto di Milosevic, condito da una prolusione fanatica in terra kosovara (idealmente parte della Grande Albania, insieme a porzioni di Macedonia, Grecia e Montenegro), servì da apriscatole all'insediamento di altri leader reazionari come il croato Franjo Tudjman, fautore della campagna di discriminazione dei serbi nella repubblica. La Yugoslavia creata da Tito (ЈоÑип Броз Тито) cominciava a dissolversi alle porte dei '90, di fronte al comportamento complice dell'Occidente e della Nato, che con la successiva ingerenza materiale contribuì allo sfaldamento definitivo del mosaico costruito con fatica dal leader comunista. Sin dal tempo della Resistenza antifascista, Tito aveva riunito sotto la bandiera comune le forze eterogenee degli "slavi meridionali" (jugo sta, appunto, per "sud"), fatta eccezione per gli ustascia croati ed alcuni tradizionalisti di stanza a Belgrado. Nelle schiere dei partigiani titini figuravano serbi di Croazia e Bosnia e soprattutto montenegrini, che offrirono all'esercito di liberazione il grosso degli ufficiali. La lotta contro il nemico comune, i regimi parafascisti direttamente dipendenti dall'Italia mussoliniana e dalla Germania nazista, aveva rinsaldato i rapporti tra le eterogenee comunità locali, contribuendo all'accantonamento dei particolarismi. Lo stesso Pcj trovò terreno fertile per la costituzione della Resistenza contro l'oppressore esterno, potendo così preparare la svolta federalista promessa da Tito per il dopoguerra, volta ad una maggiore autodeterminazione ed emancipazione degli stati, e che avrebbe dovuto includere anche l'Albania. Lo sfacelo seguito alla morte di Josip Broz e le spaccature interne al partito hanno riesumato vecchie tensioni, che erano state riposte nello stanzino grazie all'autorevolezza del leader ed al miglioramento lento e a macchia di leopardo delle condizioni di vita di una terra per l'80% votata all'agricoltura. E ciò nonostante i tentativi di interferenza dell'Occidente politico, accentuati dopo la morte del Maresciallo, sempre pronto a soffiare sulle fiamme dei nazionalismi. Con il venir meno del collante politico ed il problema del debito pubblico, determinati interessi sociali piuttosto diversificati hanno assunto prevalenza, connettendosi alle istanze rivendicative. Ed è stato quando l'elemento politico ha assunto centralità, corroborato da pressioni esterne, che si è scatenata la dimensione etnica. Se gli accordi di Dayton del 1995 da un lato permisero di fermare l'escalation di crimini commessi da ambo le parti durante la guerra di Bosnia, dall'altro non consentirono di disciplinare, con una buona dose di opportunismo e mala fede assassina, la questione relativa al Kosovo, che si ripresentò dopo pochi anni nelle forme che tutti conoscono. I pogrom ai danni degli abitanti kosovari condotti dai fascisti serbi sostenuti da polizia ed esercito, la reazione di piombo dell'Uck e gli infami bombardamenti Nato sulla popolazione civile a Belgrado hanno rappresentato lo strascico sanguinario di una guerra protrattasi sino al 1999. Da qualche anno il Kosovo, sotto la stretta sorveglianza delle Nazioni Unite, si è proclamato indipendente. La dichiarazione unilaterale del Parlamento di Pristina, arrivata sostanzialmente al culmine di una vera e propria occupazione Nato che vi ha installato la terribile base militare di Camp Bondsteel, ha incontrato la ferma opposizione di Belgrado, che soltanto negli ultimi anni ha mostrato segnali di apertura, pur senza mai riconoscere ufficialmente la Repubblica. La stessa Unione Europea, con il suo solito fare pilatesco, non ha preso posizione in materia, lasciando ampia autonomia sull'atto politico ai vari Stati membri. Da un punto di vista strategico l'indipendenza, oltre che ridisegnare nuovamente la geografia dell'area balcanica, rischia di incoraggiare focolai sempre pronti a rianimarsi nella regione, specie se teleguidati (si pensi alla Macedonia, abitata al 30% da genti di etnia albanese).