Risale alla fine del 2015 l'approvazione da parte della Camera dei Deputati del disegno di legge che introdurrebbe in Italia il diritto di cittadinanza per i figli di immigrati nati in terra italiana o giunti qui da piccoli, il cosiddetto "ius soli": la proposta del Partito Democratico, giunta lo scorso 15 Giugno al Senato, ha scatenato le polemiche e il contrasto di una buona parte della destra italiana e dell'immancabile Movimento 5 Stelle. Cerchiamo allora di fare un po' di chiarezza sulla questione destreggiandoci tra numeri e Storia più o meno recente. Il primo esempio di ius soli a cui possiamo fare riferimento risale ai tempi dell'Impero romano e dell'imperatore Caracalla, il quale, pose nella Costituzione dell'epoca il diritto di qualsiasi uomo e donna libero nato nel vasto territorio dell'Impero di potersi fregiare dello status di cittadino romano. Quest'ultimo permette l'acquisizione di diritti civili e politici e situazioni giuridiche attive a differenza dello status di suddito, titolare soltanto di situazioni giuridiche passive, ovvero doveri e soggezioni. La prima legge italiana che regola il diritto di cittadinanza risale invece al 1912, periodo in cui il modernismo riformatore faceva ancora a pugni con le spinte conservatrici e con le massicce ondate emigratorie degli italiani in terre straniere come l'Argentina e il Brasile, dove vigeva lo ius soli puro. Il legislatore ha allora optato per lo ius sanguinis, il quale sancisce che un cittadino è italiano se almeno uno dei due genitori lo è a sua volta. Se un bambino è figlio di genitori stranieri, sebbene sia stato partorito in Italia e viva regolarmente nel nostro territorio, deve aspettare di compiere la maggiore età per richiedere la cittadinanza. Tale principio è da allora parte integrante del quadro giuridico italiano ed è rimasto immutato anche con l'ultima riforma, risalente al 1992. Il principio dello ius sanguinis ha avuto senso poichè l'Italia era un paese di prevalente emigrazione: con lo ius soli si rischiava soltanto di diminuire drasticamente i cittadini italiani. Lo ius sanguinis ha avuto un suo senso, seppur distorto, durante l'epoca fascista: preservava lo spazio di appartenenza ed esclusione del nuovo razzismo di Stato. Addirittura, durante la vergognosa parentesi delle leggi razziali del 1938 si era soliti utilizzare la definizione normativa di "persona appartenente alla razza ebraica" per escludere questa fetta di popolazione dai diritti di cittadinanza. Alla luce dei fatti recenti, in un momento storico in cui l'Italia è divenuta un paese ospitante, anche se nella maggior parte dei casi rimane "di passaggio" nelle rotte migratorie, è giusto ripensare e riformulare il concetto di cittadinanza? La proposta al vaglio delle Camere prevede due nuovi criteri per ottenere la cittadinanza italiana prima dei 18 anni: lo ius soli temperato e lo ius culturae. Il primo permette al bimbo nato da genitori stranieri di ricevere la cittadinanza italiana se uno dei due genitori risiede regolamente in Italia da almeno 5 anni. Se i genitori non sono provenienti da Paesi U.E. ma in possesso di regolare permesso di soggiorno, devono rispettare ulteriori 3 requisiti: avere un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale, disporre di un alloggio idoneo e superare un test di conoscenza della lingua italiana. Il secondo criterio, invece, prevede l'acquisizione della cittadinanza per quei minori nati in Italia o arrivati qui entro i 12 anni, che abbiano frequentato la scuola per almeno 5 anni e superato almeno un ciclo scolastico. I giovani giunti in Italia dopo i 12 anni e massimo fino ai 18, potranno diventare italiani non solo risiedendo regolarmente sul territorio per 6 anni, ma frequentando anch'essi un ciclo scolastico. Secondo un sondaggio della Fondazione Leone Moressa, attualmente in Italia ci sono 1 milione e 65mila minori stranieri di cui 166.008 hanno completato un ciclo di studi quinquennale, senza contare coloro che hanno frequentato le scuole superiori. I dati Istat invece parlano di una popolazione italiana in un trend sempre più negativo: le nascite nel 2016 sono state 474mila contro le 486mila del 2015. 86mila italiani, inoltre, hanno abbandonato la loro patria al 1 Gennaio 2017, facendo assestare il numero di residenti a 60milioni e 579mila. Sempre secondo i dati della Fondazione Moressa, nel 2015, gli italiani in età lavorativa rappresentavano il 63,2%, mentre tra gli stranieri la quota raggiungeva il 78,1%. Dal punto di vista economico, per contro, la ricchezza prodotta dagli stranieri in termini di valore aggiunto nel 2015 è pari a 127 miliardi (8,8% del valore aggiunto nazionale). A fronte di una popolazione sempre più anziana, sembra veramente difficile preservare l'"italianità" intesa nel senso più retrogrado del termine: aprire a nuove forme di integrazione potrebbe essere una ricetta interessante per ridare vitalità ad un Paese sempre più chiuso in sé stesso e annaspante. Con buona pace di qualche politicuccio che raccoglie voti seminando paura e ignoranza.