
Italia
I vostri comunicati stampa a This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Pierfrancesco Maresca By
- Hits: 3760
Probabilmente quello di essere contemporaneamente leader di due partiti è il sogno di ogni politico. Eppure c'è chi ci è riuscito, al di là di ogni dubbio e nonostante il carattere di eccentricità. Matteo Salvini, l'attuale Ministro degli Interni, oggi risulta leader di due partiti col dispiacere (o la gioia) dei suoi militanti, sempre che ne siano a conoscenza. Nelle settimane precedenti alle scorse elezioni nazionali il leader aveva ufficialmente dichiarato di aver cambiato il suo partito e di volerlo estendere al Sud lasciandosi alle spalle l'antimeridionalismo e l'indipendenza della Padania. Premesso che dimenticare gli insulti ai meridionali è difficile, ciò che nessuno si aspettava, però, è che costui desse vita addirittura ad un altro Carroccio lasciando inalterato il primo. Insomma, non una rapida e semplice riorganizzazione della vecchia Lega Nord di Bossi (come tutti avevano inteso) bensì la nascita di un suo gemello. Infatti, se un simpatizzante prendesse la decisione di tesserarsi dovrà farlo presso la Lega - Salvini premier. qualora fosse residente in una delle regioni comprese tra quelle del confine nord e l'Umbria. Invece, qualora il candidato risultasse residente in una delle regioni al di sotto dell'Umbria, dovrebbe tesserarsi presso la Lega per Salvini premier. I nomi sono simili ma non identici. Per la Lega del Nord bisognerebbe collegarsi al sito leganord.org mentre per quella del centro sud su tesseramento.legapersalvinipremier.it. Un'anomalia, questa, che emerge soprattutto se si pensa che i due partiti hanno differenti sedi legali e persino codici fiscali differenti. Quella del Nord è il partito ereditato da Umberto Bossi con sede a via C. Bellerio 41 a Milano, all'interno del cui statuto è presente ancora l'articolo secondo il quale il Carroccio avrebbe il fine di perseguire l'indipendenza della Padania, al contrario della "nuova" Lega, ubicata a via Privata delle Stelline 1 a Milano, nata per lottare all'insegna di un'Italia federale come riportato nello statuto pubblicato il 14 dicembre 2017 sulla Gazzetta Ufficiale. Ma il mistero è presto svelato: stando a quanto dichiarato dagli uffici del partito l'esigenza nasce per questioni "giudiziarie". Una risposta senz'altro ambigua e per nulla esaustiva anche se l'ipotesi più probabile è che si riferisca ai 49 milioni di euro che il Carroccio ricevette indebitamente dallo Stato come fondi dal 2008 al 2010 e che dovrebbe restituire, reato per il quale sono stati condannati l'ex leader Umberto Bossi e l'ex tesoriere Francesco Belsito. Infatti, secondo alcuni osservatori l'escamotage di possedere un partito parallelo con un codice fiscale differente gli permetterebbe di ricevere donazioni (tra cui quelle del 2 per 1000) e quindi di far fronte alle varie spese senza il timore di eventuali sequestri soprattutto al sopraggiungere delle elezioni europee, anche se l'attuale tesoriere Giulio Centemero ha smentito queste insinuazioni. Ma il dato oggettivo dei due codici resta, così come questi sospetti. Certamente persiste un elemento imbarazzante per il suo leader: secondo l'articolo 33 dello statuto della Lega del Nord, infatti, sarebbe incompatibile la posizione di un associato ordinario militante con l'iscrizione presso altri partiti, movimenti o associazioni senza l'autorizzazione da parte dell'organo competente. Giuridicamente quindi la posizione di Salvini diventa complicata, anche agli occhi dei militanti e soprattutto dei vertici dirigenziali perché, si sa, le ostilità in politica sono soprattutto interne. Nel frattempo l'Italia resta troncata in due parti, ognuna con una propria Lega che ha il piacere di condividere lo stesso leader. Paradossalmente è ancora vivo lo spettro della Lega Nord che per anni ha denigrato i meridionali, in attesa della chiusura e del completo "assorbimento" da parte di quella del Sud.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Redazione By
- Hits: 4422
Roma. La Camera ha approvato il taglio dei vitalizi. L'ufficio di presidenza ha dato il via libera al provvedimento del presidente Roberto Fico sulle indennità degli ex parlamentari, stabilendo che siano ricalcolati secondo il metodo contributivo. Poco dopo l'annuncio i parlamentari 5 Stelle si sono radunati in piazza Montecitorio con palloncini gialli e bottiglie di champagne. "Ora il Senato prenda esempio", ha dichiarato Luigi Di Maio. Il provvedimento anticipa infatti l'azione dell'ufficio di presidenza di Palazzo Madama, dove la misura non è ancora stata incardinata. Non scompaiono, dunque, assegni e pensioni dei parlamentari, ma certamente si alleggeriscono. Entrerà in vigore il 1 gennaio 2019 e riguarderà chi non è in Parlamento da tempo, perché già la riforma Monti del 2012 non esistono più vitalizi per chi è stato in Parlamento se non con il metodo contributivo. Sono circa 2600 le persone che subiranno tagli. In media il taglio sarà del 20%, ma i calcoli si fanno caso per caso perché il vitalizio dipende dagli anni passati in Parlamento. Il costo annuo dei vitalizi è attorno ai 200 milioni euro. Alla Camera riguarda 1338 vitalizi su 1405 erogati. Per 67 ex deputati l'assegno sarà invariato. A Montecitorio ci sarebbe un taglio di 18 milioni di euro all'anno, che arriverebbe a quasi 100 milioni a fine legislatura. Le vedove di ex parlamentari non dovrebbero subire effetti dalla riforma. Nessun vitalizio invece per i condannati in via definitiva. Ma gli ex parlamentari hanno già annunciato una class action. Secondo Paolo Cirino Pomicino, ex deputato Dc, quando fu introdotto negli anni Sessanta, "i padri costituenti erano viventi e compresero che la libertà dei legislatori doveva essere garantita anche sul piano economico nel presente e nel futuro, senza arricchimenti ma con la dignità pari alla funzione svolta".

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Pierfrancesco Maresca By
- Hits: 1259
In questi giorni il nuovo Governo sta facendo molto parlare di sé, specie a seguito delle vicende riguardo l'immigrazione clandestina, le ONG ed il tanto ambito reddito di cittadinanza. Quindi, i veri vincitori delle scorse elezioni sono stati questi due partiti: Lega e Movimento Cinque Stelle. Il primo dal 2013 è passato dal 4% al 18% circa, il secondo dal 25% a quasi il 32%, riuscendo così a conquistare il titolo di "primo partito", scavalcando il Partito Democratico e posizionandosi ad un soffio dalla coalizione di centro destra. I fattori che hanno permesso questo risultato inaspettato hanno destato curiosità divenendo quindi oggetto di studio per politologi e sociologi, anche perché questi due partiti sono riusciti a "strappare" elettori agli altri concorrenti. La Lega, in quanto partito, presenta una novità assoluta. Poche settimane prima che si votasse il leader Matteo Salvini ha presentato all'Italia un'immagine tutta nuova del "carroccio", così soprannominato in riferimento al carro utilizzato dalla lega lombarda durante il medioevo. Il partito, infatti, è stato completamente riorganizzato anche giuridicamente: ad esempio, nello statuto la voce riguardante l'indipendenza della Padania è scomparsa ed è stata sostituita con la proposta di un'Italia federale. Lo stesso simbolo è mutato, dal verde che rimandava al colore della Padania si è passati al blu, eliminando il "Sole delle Alpi" e sostituendo la parola "Nord" con il cognome del leader. Quindi, tutti i riferimenti all'indipendenza del nord sono scomparsi tanto che il partito si è esteso e ramificato anche nel meridione, prima inaccessibile per ovvi motivi. L'operazione adottata da Salvini prende il nome di personalizzazione o di "partito personale", dentro la quale prende spazio la figura personale del leader, del suo corpo e della sua persona, mettendo in secondo piano l'identità del partito. Questa è la distinzione sostanziale dai partiti cosiddetti di massa, come la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, all'interno dei quali non prevaleva il singolo, il segretario, bensì l'ideologia e la posizione politica marcata. La Lega Nord nata da Bossi rientrava in questa casistica, in quanto l'indipendenza del nord e l'antimeridionalismo avevano attirato gli elettori: non tanto Bossi, quindi, quanto la mission con cui si identificavano. Con Salvini la Lega si è trasformata in partito personale e oggi il suo cognome è presente nel simbolo, novità che gli ha procurato anche ostilità interne. Inoltre, nel momento in cui il leader si autopromuove, basta uno scandalo relativo alla vita privata per distruggere l'intero partito: quindi questo modello si presenta sotto una forma molto debole ed in Italia abbiamo già visto come gli scandali di singoli abbiano danneggiato l'intero partito. Differente è il Movimento Cinque Stelle nato da Beppe Grillo. Il comico genovese, stanco e amareggiato da una politica durata anni in cui due partiti si alternavano al Governo senza dare serie risposte creando così un circolo vizioso, ha deciso di dare vita ad un "antipartito", un movimento di "laici" con lo scopo di mostrarsi come una valida e seria alternativa. Sceso in campo con i Vaffa Day, attraverso il sistema di votazione on-line, Grillo dal suo sito e blog ha conquistato sempre più fiducia da parte degli italiani. Un movimento senza un chiaro leader, bensì formato da cittadini che partecipano alle decisioni attraverso il web, quindi mostrandosi come una perfetta democrazia e non tanto "distanti" dal basso come gli altri partiti. Questi sono gli identikit dei due vincitori che, anche se diversi, presentano degli aspetti comuni. Il primo è il carisma dei due leader, Salvini e Di Maio, che come ci ricorda Max Weber è una qualità innata che consente al soggetto di farsi "amare" e "seguire", essendo inoltre dotato per natura abili qualità oratorie. Il suo fascino attrae, il leader è dotato di appeal. Il carisma ha caratterizzato uomini come Napoleone, Cesare ed Alessandro Magno. Inoltre, il fatto che siano giovani anagraficamente ha giovato ancor di più. Il secondo fattore è l'investimento nella comunicazione. Entrambi, infatti, hanno saputo utilizzare i social, in particolare Twitter e Facebook, intercettando e conquistando così una fascia più ampia di elettori, oltre ai comuni giornali e tv. I social permettono di trasmettere informazioni in tempo reale nonché di condividere foto e selfie di momenti della vita quotidiana, spesso con un tocco di ironia e divertimento, questo sempre perché sono soggetti dotati di carisma. Gli altri partiti, invece, non hanno investito abbastanza in questo nuovo mezzo di comunicazione: il web e i social. Infine, il loro antieuropeismo ha saputo incanalare un malcontento ed un'opinione diffusa, ovvero quella che le istituzioni europee, in un momento di crisi economica dei Paesi mediterranei (Spagna, Italia, Grecia), non hanno saputo fornire un'immagine solidale ed assistenziale sufficiente, facendo sì che questi movimenti nazionalisti sorgessero anche altrove. Insomma, questo è stato il cavallo di battaglia di Salvini e Di Maio: carisma, strategia comunicativa ed antieuropeismo. La battaglia l'hanno vinta, ed alla grande anche. Ora tocca vincere la guerra.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Redazione By
- Hits: 1147
Roma. Si chiude dopo 88 giorni dal voto del 4 Marzo la crisi più lunga e drammatica della storia repubblicana. Raggiunto l'accordo politico tra M5s e Lega (e Quirinale). "Ci sono le condizioni per un esecutivo politico", hanno detto Luigi Di Maio e Matteo Salvini al termine di un vertice pomeridiano durato quasi quattro ore sulla spartizione dei ministeri. Il neo premier Giuseppe Conte, salito al Colle intorno dopo la rinuncia di Carlo Cottarelli che si era congedato tra gli applausi dei giornalisti in sala stampa, ha accettato l'incarico da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ha presentato la lista dei ministri: "Lavoreremo con determinazione - ha detto - per migliorare le condizioni di vita di tutti gli italiani". Il nuovo esecutivo vedrà quindi un premier tecnico con due vicepremier che sono i leader dei partiti che sostengono il governo; diciotto ministri, di cui 5 donne; un sottosegretario targato Lega. In tutto i ministri sono 18: nove quelli i pentastellati, sei delle Lega, tre i tecnici. Cinque le donne. Di seguito la lista:
Presidente del Consiglio: Giuseppe Conte
Vicepresidente del Consiglio e Ministro del Lavoro: Luigi Di Maio (M5s)
Vicepresidente del Consiglio e Ministro dell'Interno: Matteo Salvini (Lega)
Sottosegretario Presidente del Consiglio Giancarlo Giorgetti (Lega).
Rapporti con il Parlamento e Democrazia Diretta: Riccardo Fraccaro (M5s)
Pubblica Amministrazione: Giulia Bongiorno (Lega)
Affari Regionali e Autonomie: Erika Stefani (Lega)
Ministro per il Sud: Barbara Lezzi (M5s)
Ministro per la Famiglia per le Disabilità: Lorenzo Fontana (Lega)
Ministro degli Affari Esteri: Enzo Moavero Milanesi
Ministro delle Politiche Comunitarie: Paolo Savona
Ministro della Giustizia: Alfonso Bonafede (M5s)
Ministro della Difesa: Elisabetta Trenta (M5s)
Ministro dell'Economia: Giovanni Tria
ministro delle Infrastrutture: Danilo Toninelli (M5s)
Ministro dell'Ambiente: Sergio Costa
Ministro delle Politiche Agricole: Gianmarco Centinaio (Lega)
Ministro Infrastrutture: Danilo Toninelli (M5s)
Ministro dell'Istruzione: Marco Bussetti (Lega)
Ministro dei Beni Culturali e Turismo: Alberto Bonisoli (M5s)
Ministro della Salute: Giulia Grillo (M5s).

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Redazione By
- Hits: 1123
Roma. Colpo di scena. Lega e M5s potrebbero riprovare a dar vita al cosiddetto "Governo del Cambiamento". Nonostante le polemiche, la trattativa è ripartita. "Prendo atto che Matteo Salvini "cuor di leone" non vuole fare l'impeachment e lì ci vuole la maggioranza", dice Luigi Di Maio durante un comizio a Napoli, che riapre la porta: "Se abbiamo sbagliato qualcosa lo diciamo: ma una maggioranza c'è in Parlamento, fatelo partire quel governo e basta mezzucci. Di governi tecnici, istituzionali, non ne vogliamo. La maggioranza in Parlamento c'è. Se si vuole risolvere questa crisi e rassicurare i mercati, si faccia partire un governo che ha già un programma chiaro". Salvini, al grido di "non mollo, ci andiamo al governo", conferma e rafforza la volontà di riaprire il dialogo con il Quirinale, chiedendo di far partire subito il Parlamento per cambiare le pensioni e abolire i vitalizi. Riprende quindi corpo l'ipotesi di un esecutivo Lega-M5s.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Redazione By
- Hits: 656
Roma. "Il professor Conte mi ha sottoposto i decreti di nomina dei ministri che io devo firmare assumendomene la responsabilità istituzionale: un ruolo di garanzia che non ha mai subito né può subire imposizioni. Ho accettato tutte le proposte dei ministri, tranne quella del ministro dell'Economia". Con queste parole il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha spiegato ieri il fallimento del tentativo di un'ipotetica formazione di governo con la coalizione Movimento 5 Stelle e Lega e il no alla nomina dell'economista Paolo Savona. "La designazione del ministro costituisce sempre un messaggio ai mercati - ha spiegato Mattarella -. Ho chiesto di avere un esponente di maggioranza, coerente con l'accordo di programma, che non sia visto come sostenitore di una linea che potrebbe provocare l'uscita dell'Italia dall'euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento rigoroso in Europa per cambiarla in meglio per l'Italia. Ho riscontrato la rigidità delle forze politiche". "L'incertezza sulla nostra posizione nell'euro - ha sottolineato il Presidente - ha posto in allarme investitori italiani e stranieri che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L'impennata dello spread aumenta il debito e riduce le possibilità di interventi sociali. Le perdite in Borsa bruciano risorse delle aziende e di chi ha investito, e costituiscono un pericolo per i risparmi degli italiani: occorre porre attenzione agli interessi sui mutui e sui finanziamenti alle aziende. È mio dovere essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani".

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Redazione By
- Hits: 681
Roma. Dopo 85 giorni di stallo e di tentativi infruttuosi di dare un governo al Paese, l'impasse politica si trasforma dunque in uno scontro istituzionale senza precedenti. Il premier incaricato Giuseppe Conte ha rimesso l'incarico al Presidente. Decisivo è stato il nodo sul nome dell'economista Paolo Savona, un "sostenitore della fuoriuscita dall'euro". "Ho accettato tutti i ministri tranne quello dell'Economia, ho registrato con rammarico indisponibilità ad ogni altra soluzione", ha sottolineato Mattarella. Irritazione di Di Maio, che ha persino chiesto l'impeachment del Capo dello Stato, mentre Salvini vuole il ritorno alle urne: "Subito la data delle elezioni o andiamo a Roma". Il no del Quirinale all'impuntatura di Lega e M5s sul nome dell'economista sardo Paolo Savona scatena, infatti, l'ira di Salvini e Di Maio. E verso il Capo dello Stato si materializza la possibilità dell'accusa peggiore: quella di impeachment, la messa in stato d'accusa del Presidente per alto tradimento. Accusa mossa dal M5s e su cui anche Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni concorda. E mentre Salvini, per ora, glissa sull'ipotesi che i 5 Stelle vogliono invece portare in Parlamento, arriva la presa di distanze di Silvio Berlusconi. "Parole irresponsabili", ha tagliato corto il leader di Forza Italia.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Valentina Manna By
- Hits: 3110
Risale alla fine del 2015 l'approvazione da parte della Camera dei Deputati del disegno di legge che introdurrebbe in Italia il diritto di cittadinanza per i figli di immigrati nati in terra italiana o giunti qui da piccoli, il cosiddetto "ius soli": la proposta del Partito Democratico, giunta lo scorso 15 Giugno al Senato, ha scatenato le polemiche e il contrasto di una buona parte della destra italiana e dell'immancabile Movimento 5 Stelle. Cerchiamo allora di fare un po' di chiarezza sulla questione destreggiandoci tra numeri e Storia più o meno recente. Il primo esempio di ius soli a cui possiamo fare riferimento risale ai tempi dell'Impero romano e dell'imperatore Caracalla, il quale, pose nella Costituzione dell'epoca il diritto di qualsiasi uomo e donna libero nato nel vasto territorio dell'Impero di potersi fregiare dello status di cittadino romano. Quest'ultimo permette l'acquisizione di diritti civili e politici e situazioni giuridiche attive a differenza dello status di suddito, titolare soltanto di situazioni giuridiche passive, ovvero doveri e soggezioni. La prima legge italiana che regola il diritto di cittadinanza risale invece al 1912, periodo in cui il modernismo riformatore faceva ancora a pugni con le spinte conservatrici e con le massicce ondate emigratorie degli italiani in terre straniere come l'Argentina e il Brasile, dove vigeva lo ius soli puro. Il legislatore ha allora optato per lo ius sanguinis, il quale sancisce che un cittadino è italiano se almeno uno dei due genitori lo è a sua volta. Se un bambino è figlio di genitori stranieri, sebbene sia stato partorito in Italia e viva regolarmente nel nostro territorio, deve aspettare di compiere la maggiore età per richiedere la cittadinanza. Tale principio è da allora parte integrante del quadro giuridico italiano ed è rimasto immutato anche con l'ultima riforma, risalente al 1992. Il principio dello ius sanguinis ha avuto senso poichè l'Italia era un paese di prevalente emigrazione: con lo ius soli si rischiava soltanto di diminuire drasticamente i cittadini italiani. Lo ius sanguinis ha avuto un suo senso, seppur distorto, durante l'epoca fascista: preservava lo spazio di appartenenza ed esclusione del nuovo razzismo di Stato. Addirittura, durante la vergognosa parentesi delle leggi razziali del 1938 si era soliti utilizzare la definizione normativa di "persona appartenente alla razza ebraica" per escludere questa fetta di popolazione dai diritti di cittadinanza. Alla luce dei fatti recenti, in un momento storico in cui l'Italia è divenuta un paese ospitante, anche se nella maggior parte dei casi rimane "di passaggio" nelle rotte migratorie, è giusto ripensare e riformulare il concetto di cittadinanza? La proposta al vaglio delle Camere prevede due nuovi criteri per ottenere la cittadinanza italiana prima dei 18 anni: lo ius soli temperato e lo ius culturae. Il primo permette al bimbo nato da genitori stranieri di ricevere la cittadinanza italiana se uno dei due genitori risiede regolamente in Italia da almeno 5 anni. Se i genitori non sono provenienti da Paesi U.E. ma in possesso di regolare permesso di soggiorno, devono rispettare ulteriori 3 requisiti: avere un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale, disporre di un alloggio idoneo e superare un test di conoscenza della lingua italiana. Il secondo criterio, invece, prevede l'acquisizione della cittadinanza per quei minori nati in Italia o arrivati qui entro i 12 anni, che abbiano frequentato la scuola per almeno 5 anni e superato almeno un ciclo scolastico. I giovani giunti in Italia dopo i 12 anni e massimo fino ai 18, potranno diventare italiani non solo risiedendo regolarmente sul territorio per 6 anni, ma frequentando anch'essi un ciclo scolastico. Secondo un sondaggio della Fondazione Leone Moressa, attualmente in Italia ci sono 1 milione e 65mila minori stranieri di cui 166.008 hanno completato un ciclo di studi quinquennale, senza contare coloro che hanno frequentato le scuole superiori. I dati Istat invece parlano di una popolazione italiana in un trend sempre più negativo: le nascite nel 2016 sono state 474mila contro le 486mila del 2015. 86mila italiani, inoltre, hanno abbandonato la loro patria al 1 Gennaio 2017, facendo assestare il numero di residenti a 60milioni e 579mila. Sempre secondo i dati della Fondazione Moressa, nel 2015, gli italiani in età lavorativa rappresentavano il 63,2%, mentre tra gli stranieri la quota raggiungeva il 78,1%. Dal punto di vista economico, per contro, la ricchezza prodotta dagli stranieri in termini di valore aggiunto nel 2015 è pari a 127 miliardi (8,8% del valore aggiunto nazionale). A fronte di una popolazione sempre più anziana, sembra veramente difficile preservare l'"italianità" intesa nel senso più retrogrado del termine: aprire a nuove forme di integrazione potrebbe essere una ricetta interessante per ridare vitalità ad un Paese sempre più chiuso in sé stesso e annaspante. Con buona pace di qualche politicuccio che raccoglie voti seminando paura e ignoranza.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Redazione By
- Hits: 1098
Roma. Vince il No al Referendum sulla riforma costituzionale e il premier Matteo Renzi annuncia le sue dimissioni. Secondo i dati non ancora definitivi che arrivano dal Viminale, il No è al 59,63% mentre il Sì si ferma al 40,37%. L'affluenza alle urne è stata del 68,44%. Nettissimo quindi, anche più di quanto i sondaggi avevano previsto, il No alla riforma costituzionale che sancisce la fine del governo di Matteo Renzi. In una tornata elettorale che vede l'affluenza sfiorare il 70%, arriva la sconfitta senza precedenti per il presidente del Consiglio che, in diretta da Palazzo Chigi, ha annunciato il suo passo indietro. Renzi ha prima twittato: "Grazie a tutti comunque, viva l'Italia" con un post scriptum: "arrivo, arrivo", proprio come quando nel 2014 stava per assumere l'incarico dopo il colloquio con Giorgio Napolitano. Poi ha fatto l'annuncio: "La mia esperienza di governo finisce qui". Il vicesegretario Lorenzo Guerini ha annunciato che sarà convocata la direzione del partito per martedì 7 Dicembre. Oltre alla Lega Nord, che ha parlato di "una vittoria di popolo", e a Forza Italia, chi chiede di andare al voto il primo possibile è anche il Movimento 5 Stelle.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Valentina Manna By
- Hits: 1599
"Non c'è stato bisogno del Cnel, in una democrazia libera". Questo è quanto afferma il Direttore editoriale della testata "Strade" Piercamillo Falasca, nonché consigliere economico presso il Ministero degli Affari Esteri. Il Consiglio Nazionale per l'Economia e il Lavoro, in effetti, nei suoi 57 anni di attività non ha alle spalle una grande mole di lavoro. Parliamo infatti di 14 disegni legge proposti - tutti ignorati dal Parlamento - 96 pareri, 350 testi di Osservazioni e Proposte, 270 Rapporti e Studi, 90 Relazioni, 130 Dossier che raccolgono gli atti di convegni ospitati al Cnel e 20 Protocolli e Collaborazioni istituzionali. Eppure esso è un organo con facoltà legislativa previsto dalla Costituzione, precisamente dall'articolo 99. Nato per volontà dei Padri Costituenti, il Cnel è un organismo di consulenza per il Parlamento e il Governo che tratta tematiche economiche e sociali. Il suo scopo era quello di far giungere in Parlamento proposte di legge già approvate dalle forze sociali che poi dovevano applicarle, in una sorta di ottica corporativistica tipica degli anni '30. In effetti esso ricalca le forme del Consiglio Nazionale delle Corporazioni voluto da Mussolini nel 1926. Fortunatamente, nel corso degli anni le varie parti sociali hanno trovato strade molto più dirette e semplici per farsi ascoltare dalla classe politica, pertanto la sua funzione è sempre rimasta marginale. Inizialmente composto da 121 consiglieri, il Cnel è stato oggetto negli anni di un processo di "spending review" teso anche a valorizzare le sue funzioni, che lo ha portato al numero di 64 dipendenti che possiamo suddividere così: 10 esperti di cultura economica, sociale e giuridica di cui 8 nominati dal Presidente della Repubblica e 2 dal Presidente del Consiglio dei Ministri, 48 rappresentanti delle categorie produttive (22 per il lavoro dipendente, 3 per i dirigenti e quadri pubblici e privati, 9 per il lavoro autonomo e 17 per le imprese), 6 rappresentanti delle Associazioni di Promozione Sociale e Volontariato, 3 proposti dall'Osservatorio Nazionale dell'associazionismo e 3 dall'Osservatorio nazionale per il volontariato. Fanno parte del Cnel molti leader o ex leader delle sigle sindacali più importanti d'Italia come Susanna Camusso, Luigi Angeletti e Guglielmo Epifani. Essi rimangono in carica per 5 anni e possono essere riconfermati. Tra i più agguerriti nemici del Cnel non ci sono soltanto il Premier Renzi e alcuni esponenti dell'NCD, ma anche numerosi giornalisti che in diverse inchieste hanno sottolineato la spropositata cifra che quest'organismo costituzionale costa all'Italia, senza considerare i sostanziosi premi di produttività riconosciuti ai suoi dirigenti. Di fatti la "Terza Camera dello Stato" - così viene talvolta definita - ha avuto fino al 2010 un costo annuo di circa 18,2 milioni di euro, comprensivo di 160 mila euro l'anno di indennità per il suo Presidente e di un gettone di presenza di 2.154 euro al mese per i suoi Consiglieri, ai quali basta assistere a pochi minuti di assemblea mensile per non perdere questo prezioso benefit. Il progressivo svuotamento delle poltrone , dovuto anche alle minacce di soppressione che da anni si abbattono come una scure sull'Ente, ha fatto sì che nel 2015, il costo dell'organo si sia assestato intorno agli 8,7 milioni di euro. Tale dato ha smentito l'annuncio del Ministro Maria Elena Boschi, la quale ha sostenuto che la soppressione del già decimato Cnel determinerà un risparmio di 20 milioni di euro annui per le casse dello Stato. A lavorare per il Cnel senza stipendio e per spirito di servizio - secondo il Vice Presidente Gian Paolo Gualaccini - sono rimasti attualmente soltanto 24 Consiglieri. Le uniche spese riguardano il personale, tra i 4 e i 5 milioni di euro all'anno, e il mantenimento della splendida Villa Lubin, sede del Consiglio, di circa 3 milioni. I sostenitori del No non si oppongono alla soppressione del Cnel tout court, ma sottolineano l'importanza dell'organo che custodisce l'Archivio nazionale dei Contratti collettivi di lavoro, gli accordi di contrattazione collettiva, nazionale ed integrativa, sia del settore privato sia di quello pubblico, e alcune importanti banche dati come quella sull'immigrazione, sul mercato del lavoro, sulle statistiche territoriali, nonché la banca dati sulle professioni non regolamentate. Essi sostengono che il Cnel sia un baluardo della democrazia economica che delinea la programmazione del mercato, affinché quest'ultimo non contrasti con le finalità sociali che lo Stato deve garantire: senza programmazione, infatti, sarà il mercato a gestire in toto domanda ed offerta.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Valentina Manna By
- Hits: 1179
Referendum e di leggi ad iniziativa popolare, ovvero i due modi con cui i cittadini possono partecipare in maniera diretta all'attività legislativa che, tramite il proprio voto, demandano al Parlamento e di come questa verrà modificata secondo il ddl Boschi. Ma prima di ciò, urge una precisazione sulle "facoltà" del popolo. Molto spesso, infatti, si ritiene grossolanamente che rientri o debba rientrare tra i diritti sanciti dalla Costituzione lo scegliere direttamente il Premier o il Presidente della Repubblica: nulla di più lontano dalla realtà in Italia. Questa falsa credenza ha creato la convinzione che l'attuale governo sia incostituzionale e che pertanto lo sia anche l'intero impianto della riforma che voteremo il prossimo 4 Dicembre. In realtà il Primo Ministro è nominato dal Presidente della Repubblica e in secondo luogo ottiene la fiducia dal Parlamento; il Presidente invece è nominato dal Parlamento in plenaria. L'attuale legge elettorale - il cosiddetto "Porcellum" (l.70/2005) - ha maggiormente gettato confusione sulla questione poiché è stato giudicato "incostituzionale" con sentenza n.1/2014 ed abrogato in alcune delle sue parti, lasciando però inalterato il risultato delle ultime elezioni svoltesi nel 2013 per una questione di continuità.
Chiarito che l'Italia è una Repubblica parlamentare, pertanto una democrazia indiretta che si esplicita nel mandato che affidiamo ai Deputati e Senatori che eleggiamo, la nostra Costituzione, tuttavia, nell'articolo 71, prevede alcuni istituti di democrazia diretta che possiamo riassumere in referendum e leggi di iniziativa popolare. Di referendum ne esistono due tipologie: l'abrogativo, in cui ci si esprime sul mantenere in vigore o meno una determinata legge e per cui occorre un quorum del 50% + 1 dei votanti, e il confermativo, come quello del 4 Dicembre prossimo, dove gli elettori votano l'accettazione o meno di una o più modifiche costituzionali. In questo secondo caso non è necessario raggiungere un quorum di elettori. Esiste inoltre una terza tipologia di referendum, utilizzato soltanto due volte nella storia d'Italia, per il quale è stata apportata una modifica al testo costituzionale: il referendum di indirizzo. Le occasioni in cui è stato utilizzato questo strumento sono il 1946, per scegliere tra Repubblica e Democrazia e il 1989, per sancire il passaggio da Cee a Ue. Un quesito referendario può essere proposto raccogliendo 500mila firme di cittadini votanti: non è possibile sottoporre a referendum argomenti riguardanti la ratifica di trattati internazionali, l'adesione ad organizzazioni sovra o inter -nazionali: è la Costituzione a decidere modalità e argomenti su cui il popolo si può esprimere con un si o un no.
Dal 1946 ad oggi si sono avuti in Italia 71 referendum di cui 67 abrogativi. A partire da argomenti come il divorzio per giungere al più recente sulle trivelle, hanno sempre destato un forte dibattito pubblico e un trend negativo di partecipazione che è aumentato esponenzialmente con gli anni: dal 1997 in poi, tranne per il quesito del 12 e 13 Giugno 2011 sull'acqua pubblica e il legittimo impedimento per i Parlamentari, non è mai stato raggiunto il quorum previsto. Per quanto riguarda le leggi ad iniziativa popolare, invece, esse sono dei veri e propri disegni di legge redatti e suddivisi in articoli che possono essere proposti alle Camere dietro la richiesta di almeno 50mila cittadini aventi diritto al voto. Il Parlamento può rifiutare di discutere tali proposte se lo ritiene opportuno, senza fornire motivazioni. La Storia italiana ci racconta che ad oggi, su 260 leggi ad iniziativa popolare presentate, soltanto il 43% sia approdato nelle aule parlamentari e soltanto 4 (1,15% del totale) siano divenute leggi dello Stato italiano a tutti gli effetti: la disciplina sull'adozione e affidamento dei minori del 1983, la legge di indizione del referendum per conferire mandato costituente al Parlamento europeo del 1989, le norme di protezione della fauna selvatica e disciplina della caccia del 1992 e la legge quadro sul riordino dei cicli d'istruzione del 2000.
La riforma Boschi alza di molto la soglia di firme necessarie per presentare un disegno di legge ad iniziativa popolare - si passa da 50 mila a 150mila - tuttavia obbliga il Parlamento a discutere tutte le leggi regolarmente presentate, in tempi e modalità che verranno stabiliti da Regolamenti parlamentari. Cambia anche il meccanismo di determinazione del quorum per i referendum: resta intatta la soglia delle 500mila firme da raccogliere ma, nel caso i promotori ne riuscissero a raccogliere 800mila, il quorum verrebbe determinato non sugli aventi diritto ma sul numero dei votanti all'ultima tornata elettorale. Un modo per stimolare la popolazione a proporre iniziative di legge e un iter più sicuro per la loro discussione ed approvazione, secondo i sostenitori del Si. Il Comitato del No invece, sottolinea che la triplicazione del numero di firme da raccogliere per la legge ad iniziativa popolare è una vera e propria limitazione dell'esercizio della sovranità del popolo; una limitazione incomprensibile, visto lo scarso utilizzo dello strumento (1,15% di tali proposte sono state discusse dal '79 ad oggi). Inoltre la facoltà di stesura di un regolamento ad hoc da parte di Camera e Senato, eletti con l'Italicum, prevedrebbe uno strapotere del partito vincente che potrebbe optare per un regolamento che non contingenta i tempi di discussione delle proposte di legge. Le 500mila firme previste per il referendum inoltre, vengono di fatto aumentate ad 800mila se si vuole ottenere un quorum più basso: nel caso non si raggiungano, esso rimane fisso alla metà + 1 degli aventi diritto, obiettivo che, abbiamo visto, nei referendum attuali è stato impossibile raggiungere.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Valentina Manna By
- Hits: 1037
Qualcuno ricorderà ancora il clamore mediatico suscitato nel 2012 dalle vicende legate a "Rimborsopoli", ovvero le spese pazze effettuate da numerosi consiglieri regionali, rimborsate poi attingendo alle tasche delle Regioni e dello Stato nei casi più gravi. Ciò avveniva in virtù del fatto che la svolta "federalista" della Costituzione Italiana - nata negli anni '70 e proseguita fino alla riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001, la quale ha consentito la modifica di 17 articoli, a fronte degli attuali 47 del ddl Boschi - aveva creato un forte squilibrio tra autonomia e competenze centrali e locali. Approfondiamo la questione: il Titolo V è quella parte del testo costituzionale che si occupa di assegnare competenze agli enti locali, ovvero Regioni, Province e Comuni. La modifica più recente, quella che risale al 2001, ha delegato un potere maggiore agli Enti locali rispetto al passato, arrivando a concedere alle Regioni di potersi occupare di tutte quelle materie che non sono di esclusiva competenza dello Stato. Ciò ha comportato la crescita dell'autonomia di spesa e organizzativa delle Regioni, senza che però crescesse di pari passo l'autonomia fiscale: infatti, Irpef, Irap e parte dell'Iva sono le uniche imposte raccolte dallo Stato i cui proventi possono essere spesi liberamente dalle Regioni. Per amore della precisione, l'Irap è riscossa dalla Regione, che può stabilire una maggiorazione non superiore all'1% dell'aliquota. La quantità di denaro proveniente dagli altri due tributi è stabilita dallo Stato. Un aumento delle competenze ha comportato un aumento delle spese degli enti locali, i quali hanno cominciato a sborsare soldi a dismisura senza preoccuparsi di doverli recuperare: lo Stato, infatti, in caso di buchi da ripianare, ha agito prelevando fondi nazionali, non potendo, a causa proprio del Titolo V, imporre agli Enti locali di ridurre gli stipendi dei consiglieri o i fondi dei gruppi consiliari. Molti amministratori locali poco oculati quindi si sono trovati impuniti, rispetto a veri e propri disastri finanziari, senza considerare che la poca chiarezza con cui venivano differenziate le competenze locali e quelle nazionali, ha ingolfato la aule di Giustizia italiane di contenziosi da risolvere. Cosa propone il ddl Boschi per la risoluzione del problema? Una sorta di passo indietro: lo Stato riacquisisce gran parte delle competenze prima affidate alle Regioni, abolisce le Province e si arroga il potere di commissariare quegli Enti locali che sono in dissesto finanziario. Viene introdotta inoltre la cosiddetta "clausola di supremazia", cioè la possibilità dello Stato di intervenire contro gli Enti locali in nome dell'interesse nazionale. Secondo il riordino delle competenze - art.117 - 21 sarebbero le competenze statali (produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia, le infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto, i porti e aeroporti civili, tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, ambiente ed eco-sistema e non più la "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali" ecc.), mentre 8 sarebbero quelle delegate alle Regioni (pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, dotazione infrastrutturale, di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, promozione del diritto allo studio, anche universitario ecc.). A fronte di una auspicata omogeneizzazione dei servizi e di una maggiore responsabilizzazione rispetto all'operato degli amministratori locali, i sostenitori del No al Referendum sottolineano innanzitutto che le Regioni a Statuto speciale e le Province autonome non saranno oggetto di questo riordino. 5 Regioni italiane insomma funzioneranno in maniera differente rispetto alle altre: ciò significa che avranno competenze legislative diverse e non sarà possibile imporre loro un tetto allo stipendio dei parlamentari ed il rispetto delle "quote rosa". Inoltre, sarà veramente molto complicato eliminare la "competenza concorrente" tra Stato e Regioni poiché lo Stato sulla carta ha facoltà legislativa e gestionale esclusiva su "disposizioni generali e comuni": ciò significa che gli Enti locali, per via della clausola residuale, avranno competenza su ciò che resta escluso, non modificando di fatto lo squilibrio preesistente. In più, in alcune materie di attribuzione statale come le grandi reti di trasporto, produzione e distribuzione nazionale dell'energia, finanza pubblica e sistema tributario ecc., lo Stato avrà facoltà di delegare l'attuazione delle stesse proprio alle Regioni.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Valentina Manna By
- Hits: 1113
Secondo appuntamento con le "pillole" di Referendum. La scorsa volta si è illustrato il nodo centrale della Riforma Boschi, ossia la trasformazione del Senato e di come questa si rifletta a cascata sugli altri organi previsti dalla Costituzione. Uno di questi è senza dubbio il Presidente della Repubblica, la figura che più di tutte incarna l'Unità nazionale. L'elezione di Sergio Mattarella avvenuta con 665 voti al quarto scrutinio lo scorso 31 Gennaio 2015, dopo le dimissioni del Presidente Giorgio Napolitano, al suo secondo mandato, ha reso evidente la situazione di difficoltà in cui versa il Parlamento intero eletto con l'Italicum, peraltro giudicato incostituzionale. Le funzioni del Presidente della Repubblica, secondo la Costituzione vigente che ne disciplina la figura negli articoli da 83 a 91, si collocano al di sopra dei tre poteri dello Stato e suo dovere è quello di riequilibrare i rapporti tra gli altri organi costituzionali e di garantire il rispetto della Costituzione. Esso nello specifico ha la facoltà di indire le elezioni di Camera e Senato, nominare il Governo, concorrere in parte alla formazione del Senato, nominando 5 Senatori a vita, eleggere 1/3 dei Giudici della Corte Costituzionale, presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura e sciogliere anticipatamente le Camere sentiti i Presidenti di entrambe.
Il Presidente, inoltre, esercita parte delle tre funzioni statali: legislativa, amministrativa e giurisdizionale. La funzione legislativa si concretizza nella sua facoltà di inviare messaggi alle Camere facendo conoscere il suo punto di vista su una determinata problematica, autorizzare i disegni di legge prima che vengano presentati alla Camera e promulgare le leggi, arrivando anche a sospenderle, per il massimo di una volta, se queste risultano lesive delle esigenze degli Italiani. Quella amministrativa prevede il compito di nominare il Primo Ministro e i singoli Ministri, su proposta di questo, di ratificare i trattati internazionali, di presiedere il Consiglio Supremo di difesa e di comunicare lo stato di guerra deliberato dal Parlamento, di nominare i comandanti generali delle Forze Armate, di conferire le onorificenze e di accreditare rappresentanti e diplomatici degli altri Stati. Infine, la funzione giurisdizionale gli consente di poter concedere la grazia o una commutazione di pena. La Riforma Boschi non va ad incidere sulle funzioni del Presidente della Repubblica, che restano praticamente immutate, ma sulle modalità della sua elezione. Vediamo nello specifico: la Costituzione prevede che l'elezione del Presidente avvenga in seduta comune, con l'aggiunta di tre delegati inviati da ogni Regione tranne la Valle D'Aosta, che ha diritto soltanto ad uno, per un totale di 59 delegati. L'elezione avviene a maggioranza qualificata - ossia con i voti di 2/3 dell'Assemblea - nelle prime 3 votazioni. Dalla quarta in poi, se non si raggiunge l'accordo si passa alla maggioranza assoluta, cioè la metà + 1 dei votanti. Se la Riforma dovesse andare in porto il Capo dello Stato verrebbe eletto soltanto da Camera e Senato, essendo questo già espressione delle Regioni. Fino al quarto scrutinio sarebbe necessario raggiungere i 2/3 dei voti, poi i 3/5 dell'Assemblea fino al settimo e infine, i 3/5 dei votanti.
Gli attuali Senatori a vita, ovvero gli ex Presidenti della Repubblica e alcune personalità che con i loro meriti hanno fatto grande l'Italia, si estingueranno gradualmente: infatti il Presidente della Repubblica ne potrà nominarne 5, ma costoro rimarranno in carica soltanto per 7 anni. I detrattori della riforma non contestano la modifica delle modalità di elezione del Capo dello Stato ma la collocazione dei nuovi Senatori e il loro numero. In un Senato di 315 elementi, 5 Senatori eletti dal Capo di Stato rappresentavano un numero equilibrato mentre in un assise di 100 eletti essi risultano spropositati (in proporzione è come se nell'attuale Senato ce ne fossero 17). Il rischio è quello di creare una sorta di piccolo partito espressione della volontà del Presidente della Repubblica, con un peso triplicato e legato a doppio filo alle sorti di ogni Presidente entrante, che li eleggerebbe ad ogni inizio di mandato. Inoltre, ai fautori del No non è molto chiara la funzione dei 5 all'interno del nuovo Senato, che non è più, come la Camera, avente funzioni di rappresentanza generale del popolo italiano, ma che è concepito piuttosto come espressione delle autonomie Regionali.

- Details
- Category: Italia MAGAZINE
- Valentina Manna By
- Hits: 1334
Mancano poco meno di due mesi all'appuntamento con il Referendum Costituzionale del 4 Dicembre. Previsto dall'articolo 138 della Costituzione italiana, secondo il quale non è necessario che il 50% più uno degli aventi diritto vada a votare per avere validità, il Referendum sta mettendo a dura prova le competenze in materia di diritto dell'italiano medio. Un Sì o un No per approvare o respingere il testo di legge n. 88 del 15 Aprile 2016, approvato da entrambe le camere, non legittimo secondo i critici perché presentato in maniera anomala, come iniziativa di governo e non parlamentare, senza aver ottenuto la maggioranza dei 2/3 alla seconda votazione. Sospetti a parte, gli italiani andranno alle urne per esprimersi su un unico quesito che contiene una pluralità di questioni eterogenee.
Vediamo quali sono le novità, i pro e i contro che questa ambiziosa riforma prevede, provando a gettare luce sull'argomento, al fine di arrivare pronti alla fatidica data ed esprimere un'opinione consapevole e ragionata. Tre sono stati i tentativi passati, tutti falliti, di riformare la Costituzione italiana: a partire dalla prima commissione bicamerale Bozzi dell'82-'85, passando per la De Mita-Iotti del '92-'94 e quella D'Alema del '97-'98. Gli anni sono passati ma le tematiche oggetto di rinnovamento sono rimaste le medesime negli anni e si possono riassumere nelle seguenti macro-aree: Riforma del Senato, Elezione del Presidente della Repubblica, Competenze Stato-Regioni (Riforma del Titolo V della Costituzione), Referendum e iniziative legislative popolari. A queste si aggiunge la recente abolizione del Cnel (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro) avanzato dalla proposta Boschi.
In questa occasione ci occupiamo dalla questione più annosa: quella dell'abolizione del Senato che sancirebbe la fine del "bicameralismo perfetto", l'attuale sistema parlamentare che prevede la produzione di leggi in virtù dell'accordo tra due Camere che hanno posizione di assoluta parità ma distinte autonomie. Ciò risponde al principio del moderato compromesso ma rallenta l'iter del procedimento legislativo, moltiplica la frequenza dei conflitti di interesse tra le due Camere e spesso porta alla paralisi dei lavori. In Italia i governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno vissuto momenti di difficoltà nel processo di approvazione delle leggi, tanto da dover ricorrere spesso al voto di fiducia, un "corto circuito" a cui ha concorso in gran parte l'errato meccanismo su cui si basa l'attuale legge elettorale in vigore, il cosiddetto "Porcellum", che non favorisce la stabilità governativa.
La riforma del Senato, proposta dal Ministro Maria Elena Boschi, prevede la parziale abolizione del Senato che avrà un ruolo minore rispetto a Montecitorio. Il numero di senatori, attualmente pari a 315, scenderà ad un massimo di 100, di cui 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori di nomina presidenziale con un mandato di 7 anni non rinnovabile. Questi, oltre a rappresentare Regioni e Comuni, che saranno chiamati ad esprimersi col voto su alcune tipologie di leggi (costituzionali ed elettorali in primis, quindi senza abolire totalmente il bicameralismo perfetto), saranno chiamati in misura minore e in tempi ristrettissimi a pronunciarsi sulle leggi partorite dalla Camera, parteciperanno alle elezioni del Capo dello Stato e avranno facoltà di nominare 2 membri della Corte Costituzionale, pur non ricevendo nessun compenso per questa attività. A votare la fiducia al Governo sarà soltanto la Camera e non più i due rami del Parlamento.
A fronte di un notevole snellimento delle procedure di approvazione delle leggi e di un risparmio economico derivato dallo smantellamento di parte del Senato, i detrattori della Riforma rispondono sostenendo che il Bicameralismo perfetto consente di legiferare anche fin troppo velocemente - 279 giorni è il tempo medio registrato per l'approvazione dei disegni di legge - e che non c'è una presunta eccessiva legiferazione: piuttosto lo stesso materiale legislativo viene spesso modificato perché non ben ponderato. Inoltre, i sostenitori del No ritengono che il risparmio previsto di 500 milioni di euro annui, dovuto anche all'abolizione del Cnel e delle Province, sia fasullo, e che, secondo una stima della Ragioneria dello Stato, i rimborsi ai senatori non possono essere del tutto aboliti, ridimensionando la cifra intorno ai 57 milioni.
L'esautorare il Senato delle sue funzioni, inoltre, non favorirebbe né l'approvazione più rapida delle leggi né una capacità legislativa migliore, ma soltanto l'accrescere di contenziosi in Consulta e il continuo rischio di paralisi dei lavori. I Senatori, infatti, sarebbero tali soltanto part-time, perché accumulerebbero un doppio incarico, oltre a quello di Consiglieri Regionali e Sindaci, e il loro mandato sarebbe vincolato alla scadenza della elezione a Sindaco o Consigliere: pertanto si creerebbe il rischio di un turn-over frequente che genererebbe confusione ed incertezza nei lavori. All'interno di questo scenario, sicuramente non rassicurante, i Senatori a vita, inseriti in un contesto regionale e in numero invariato rispetto ad un Senato più che dimezzato, sarebbero in numero sproporzionato e assoggettati alla volontà del Presidente della Repubblica che li nomina.
Non risulta chiaro dal testo legislativo se i cittadini eleggeranno direttamente o meno i Senatori; ciò che appare evidente è che così la composizione del Senato dipenderà dall'andamento delle Regionali e delle Comunali. In tutto ciò si innesta l tema è quella dell'immunità, che viene estesa di fatto anche ai nuovi membri del Senato. Ad essere protetta dall'autorizzazione a procedere sarà automaticamente anche la loro attività di amministratori locali: una giusta tutela per i fautori della Riforma, una protezione per numerosi "amici" già indagati per i detrattori.