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Varsavia. Scrive Bernard Guetta su Internazionale che la vittoria della destra alle elezioni legislative restituisce agli osservatori una Polonia "bussola d'Europa". Ed in effetti lo spoglio ufficiale sembra confermare questa congettura: il partito PiS, Diritto e Giustizia, guidato da JarosÅ‚aw Kaczyński sbanca il tavolo delle consultazioni ottenendo circa il 38% delle preferenze, corrispondenti ad oltre 230 seggi (su 400) del Sejm, la camera bassa di Varsavia. Un primo segnale, del resto, era già arrivato nel corso delle elezioni presidenziali dello scorso Maggio, dalle quali era uscito trionfatore Adrzej Duda, ex dirigente del movimento Solidarnosc. Seppur con toni diversi, infatti, sia Duda che il PiS della candidata premier Beata SzydÅ‚o hanno trovato nel tema dell'immigrazione, uno dei leit-motiv delle recenti cronache continentali, un fertile terreno comune. Il partito della destra polacca, infatti, non ha mai nascoto, nemmeno nel corso della campagna elettorale, le sue simpatie per il controverso viatico intrapreso dall'Ungheria del premier reazionario Viktor Orban, spalleggiato dal violento movimento neonazista Jobbik nelle crociate contro europeismo e richiedenti asilo. Lo sciovinismo delle frontiere, le stesse che negli spazi balcanici del Gruppo di Visegard vanno riempiendosi di barriere e fili spinati contro il solidarismo umanitario, era già stato moderatamente resuscitato poche settimane fa dal presidente Duda, che aveva sottolineato il "pericolo di epidemie" convogliato dalle immigrazioni. L'anelito reazionario del PiS non sembra esentare nemmeno il campo dei diritti civili, con le crociate contro l'aborto e la secolarizzazione dei costumi in un paese da sempre contrassegnato da un forte sentimento cattolico. Il vero sconfitto della tornata elettorale è la Piattaforma Civica, PO, di Ewa Kopacz e dell'attuale presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, che ha governato il paese nel corso degli ultimi anni. In un'inchiesta pubblicata qualche settimana fa dal magazine dell'associazione Politico, si evidenziava con dovizia di particolari come buona parte dell'elettorato attivo si sarebbe recata alle urne con il solo scopo di bocciare un governo che aveva fatto della profonda sperequazione socio-economica la sua bandiera. Non supera invece la soglia di sbarramento dell'8% la sinistra ZI di Barbara Nowacka, mentre il terzo partito del paese è il movimento populista del rocker PaweÅ‚ Kukiz, di matrice nazionalista, che insieme alla lista germanofoba e russofoba di Janusz Korwin-Mikke appoggerà il governo del PiS. E proprio la politica estera sarà uno degli aghi della bilancia dell'esecutivo di Diritto e Giustizia: se da un lato la gestione dei richiedenti asilo e la stretta cooperazioni con i paesi del Visograd rischia di compromettere i rapporti con Germania ed Unione Europea, dall'altro le aperture mostrate alla Nato e le velleità di riapertura dei fascicoli sulla strage aerea di Smolensk non sembrano deporre a favore di una distensione del clima con l'incombente vicino russo.

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Berna. Al culmine di una campagna elettorale unidirezionale, la destra xenofoba ha vinto le elezioni politiche svizzere, raggiungendo la quota del 29,4% delle preferenze per un totale di 65 mandati al Consiglio Nazionale. Un successo agguantato sull'onda lunga del leit-motiv anti-immigrazione, battaglia in nome della quale l'Udc/Svp elvetica ha speso tutta la sua enfasi retorica. Quando negli anni '70 James Schwarzenbach, leader dello Ãœberfremdung, irretiva la platea elvetica con frasi ad effetto e slogan destrorsi, Christoph Blocher, l'anima dell'Unione Democratica di Centro, era lì a prendere appunti. Nato nel 1940, Blocher, definito da Le Monde un "bulldozer populiste", detta ancora oggi la linea politica del partito, che in Consiglio ha portato anche la figlia Magdalena, già definita senza troppe perifrasi come la nuova Le Pen. Blocher, ultraliberista e reazionario, non esita a definire gli immigrati una minaccia, tanto che sin dagli anni '80 non mostrato remore nel sostenere apertamente l'apartheid in Sudafrica. A chi, prima ancora che a Berlusconi, gli rinfaccia una certa somiglianza con la Le Pen, lui risponde che "il Front National francese è un partito ancora troppo a sinistra". Dotato di una dialettica fluida, pur se fatta di argomenti modesti, il 75enne di Sciaffusa è stato in grado di portare il suo partito in testa alle preferenze degli svizzeri, iniziando sin dagli anni '80 a disarcionarlo dalla componente agraria per farne il portavoce delle istanze borghesi, anche quelle più triviali. Non ha bisogno di sedere in Parlamento e l'attività politica dopotutto non è la sua occupazione principale. Sin dal 1983 è infatti azionista di maggioranza della EMS Chemie Holding, un'azienda chimica dei Grigioni leader nel settore. Ciò nonostante, la sua figura resta ancora granitica all'interno dello scacchiere dell'Udc e della politica svizzera, nella quale ha fatto irruzione con gli strali antieuropeisti e xenofobi, corroborati da un marketing aggressivo e spettacoloso, in grado progressivamente di far presa su un elettorato sobillato dalle sue parole infuocate e dalle schegge della crisi economica. Il Partito Socialista, fermo al 18% ed a 43 seggi, difficilmente riuscirà ad arginare la forza d'urto di un movimento che avrà dalla sua un terzo del Consiglio Nazionale. Sarà poi lo stesso Parlamento ad eleggere il Consiglio Federale, ossia il Governo, composto da 7 membri, dove l'Udc potrà così avere dalla sua un altro scranno.

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Lisbona. Quella di Pedro Passos Coelho è una vittoria a metà, aleatoria e piuttosto relativa, che permette ai conservatori portoghesi di superare almeno sulla carta la spada di Damocle della tornata elettorale nazionale. Questa ha di fatto riconsegnato il paese nelle mani di un blocco politico reazionario che ha applicato sino all'ultima stilla di zelo il diktat dell'austerity imposto dalla Troika al paese lusitano. La coalizione Portugal à Frente, formata da socialdemocratici di destra e democristiani, ha infatti ottenuto il 36,8% dei voti e poco meno di 100 deputati, a fronte dei 132 ottenuti nelle legislative del 2011. Il partito socialista guidato dall'ex sindaco di Lisbona Antonio Costa si è invece fermato al 32,3% (85 seggi), migliorando così il risultato ottenuto quattro anni fa, ma non così tanto da riuscire ad insidiare la leadership del blocco conservatore. Quel blocco che, negli ultimi anni, ha portato il paese lusitano sull'orlo della povertà (un portoghese su cinque, secondo recenti analisi, è sulla soglia della miseria) e si è trovato la strada sbarrata persino dalla Corte Costituzionale, che a più riprese ha bocciato i piani di austerity dettati dall'agenda comunitaria e del Fondo Monetario Internazionale. Tagli alla spesa pubblica, misure di bilancio, indirizzi in materia di impiego e garanzie sono state fermamente respinte dalla Suprema Corte lusitana, che ne ha biasimato la ratio e cercato di rovesciarne, senza successo, i capisaldi. Così il Portogallo, nel corso dell'ultimo anno, ha lievemente migliorato il suo conto finanziario, sacrificando all'altare del fiscal compact salari, servizi di pubblica utilità e ricchezza demografica. Le elezioni legislative riproducono pertanto un malcontento piuttosto diffuso, ma che ha portato ad un ridimensionamento piuttosto contenuto delle forze politiche protagoniste delle scelte di indirizzo dei tempi recenti. Alle spalle del duopolio conservatori-socialisti si issa il Bloco de Esquerda, formazione di sinistra formata da ex maoisti ed ex troztkisti su posizioni europeiste, vicina agli spagnoli di Podemòs e ai greci di Syriza, che ottiene il 10,2% delle preferenze e 19 deputati. Passos Coelho, qualora dovesse ricevere il mandato per le consultazioni, dovrà ora fare salti mortali per ottenere quantomeno un governo di minoranza. Il gioco delle alleanze, pur rappresentando la soluzione più prossima, appare piuttosto difficile da congegnare in virtù della composizione del nuovo parlamento. Se la precarietà decretata dalle urne dovesse essere confermata anche all'interno della stanza dei bottoni, il Portogallo rischierà di tornare al voto alla metà del 2016.
Photo: Dario Silva

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Washington. La recente visita di Papa Francesco negli States e il suo discorso al Congresso hanno costituito una prima volta eccellente nella già brillante "carriera" del Ministro di Dio. Tanti i temi trattati e tante le sfide lanciate all'Amministrazione Obama: da un maggiore rispetto per l'ambiente - oggetto anche della sua enciclica "Laudato si" - alla valorizzazione della famiglia e dei giovani. Una tematica su tutte però sembra essere balzata agli onori della cronaca perché risulta ancora un paradosso in una Nazione occidentale e "democratica" come l'America: la pena di morte. L'appello di Papa Francesco dello scorso 24 Settembre per l'abolizione di un esercizio ancora impensabile ai nostri giorni sembra caduto nel vuoto: "Il Presidente è rimasto molto colpito dalle parole del Pontefice - si era affrettato a chiarire quel giorno il portavoce di Obama - tuttavia per ora non ci saranno cambiamenti, anche se il Presidente ha sollevato in passato preoccupazione su come viene applicata la pena di morte". Obama in effetti non dorme sonni tranquilli da questo punto di vista: attualmente 31 Stati su 50 prevedono ancora la pena capitale a fronte dei 19 che l'hanno abolita (il più recente il Nebraska nel Maggio di quest'anno). Secondo le stime di Amnesty International sono 40 gli Stati nel mondo che prevedono e praticano la pena capitale nel loro codice penale: praticamente gli Stati Uniti rappresentano la parte più cospicua e risultano secondi soltanto alla Cina per numero di condanne emesse ogni anno. Amnesty, inoltre, ricorda che sono 101 gli Stati che l'hanno completamente abolita (il Vaticano stesso rinuncia ufficialmente all'esercizio della pena di morte nel 1969, sebbene lo stop alle esecuzioni fosse di secoli superiore a questa data). C'è da dire tuttavia che in quasi tutti gli Stati americani che prevedono quest'esercizio il numero di esecuzioni - le metodologie sono per lo più sedia elettrica e iniezione letale - sono drasticamente calate negli anni: le motivazioni sono da ricondurre al lungo, costoso e farraginoso iter che conduce al famoso "death row", il braccio della morte, senza considerare il boicottaggio internazionale grazie a cui diventa sempre più difficile procurarsi i preparati da utilizzare per le condanne. Dal momento della condanna a quello dell'esecuzione, inoltre, possono passare dei decenni, tempo in cui il processo può essere riaperto diverse volte per la comparsa di ulteriori prove. Molti sono i detenuti condannati e poi prosciolti che hanno vissuto svariati anni nel braccio della morte in attesa di applicazione di una ingiusta sentenza. Attualmente nelle carceri americane sono in attesa di esecuzione circa 3.500 detenuti, di cui il 42% è afroamericano. Gli Americani stessi sembrano aver sensibilmente ridotto il loro storico consenso a questo strumento punitivo: a fronte dell'80% di favorevoli alla pena di morte registrati negli anni '90, scendiamo ad un attuale 60%, che è pur sempre una percentuale non trascurabile. E' di poco più 24 ore fa l'esecuzione a Jackson della 47enne Kelly Renee Gissendaner, condannata nel 1997 per l'assassinio del marito: nonostante i suoi legali abbiano presentato 3 appelli in poche ore e nonostante la richiesta del Papa, l'unico risultato ottenuto è stato il posticipo di 5 ore dell'esecuzione. La Gissendaner è stata la prima donna in 70 anni condannata alla pena capitale. Tuttavia le parole del Pontefice, affidate alla lettera scritta dal nunzio Carlo Maria Viganò, sembrano aver sortito qualche effetto in Oklahoma, dove è stata sospesa per 37 giorni l'esecuzione di Richard Glossip, complice dell'omicidio di un proprietario di un Motel avvenuto nel 1997. Almeno mediaticamente questo è il messaggio che si è fatto passare: in realtà la sentenza è stata sospesa a causa di una presunta irregolarità nel cocktail di farmaci da somministrare al detenuto. Il potassio di cloruro, non disponibile, doveva essere sostituito con acetato di potassio, elemento non previsto sulle linee guida dell'Oklahoma. La vita di Glossip è appesa alla decisione della Corte sulla possibilità di utilizzare o meno questo ingrediente come sostituto. Niente da fare, invece, per il serial killer con disturbi mentali Alfredo Prieto, reo di aver assassinato diverse persone tra il 1988 e il 1992, la cui esecuzione era stata sospesa ieri per qualche ora, a causa della contestazione del suo avvocato difensore sul mix letale utilizzato per l'iniezione che non condurrebbe all'immediato decesso del detenuto. Prieto è stato giustiziato alle 21.17 ora locale. Il messaggio di valorizzazione della dignità e di preservazione della vita umana di Papa Francesco non ha scalfito l'inflessibilità della Giustizia americana: tuttavia il boicottaggio internazionale, che si è concretizzato nella moratoria universale della pena di morte ratificata nel 2007 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e che gli Stati Uniti non hanno firmato, sembra invece dare buoni frutti. Ciò non toglie che gettare luce su determinate questioni diventa fondamentale per sensibilizzare e smuovere l'opinione pubblica e l'operato del Pontefice in questo caso si è rivelato determinante, nella speranza che possa davvero condurre ad una maggiore sensibilità e rispetto nei confronti della vita umana e del concetto di perdono.

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Barcellona. Colonia, comunità autonoma, Stato vero e proprio: negli anni gli attriti e i dissapori con Madrid capitale hanno caratterizzato la vita della Catalogna, comunità nord-orientale della Penisola iberica, che lo scorso week-end è tornata alle urne - come accaduto già nel 2012 - per decidere delle propria indipendenza. Il popolo catalano, che è di circa 7 milioni e mezzo di abitanti e si suddivide in 4 province - Barcellona, Girona, Lleida e Tarragona - ha un passato ricco di storia ma anche di soprusi da parte dello Stato di cui fa parte: con una propria lingua - il catalano - e una culla di storie e tradizioni che lo rendono il paese più esteso tra quelli di lingua catalana, esprime posizioni indipendentistiche da secoli, posizioni coltivate da una classe dirigenziale colta ed illuminata. Il movimento indipendentista catalano si inserisce nell'alveo di quei movimenti di indipendenza territoriale in cui ritroviamo la Scozia o i Paesi Baschi ed in cui difficilmente ritroveremo le "mire" territoriali dei leghisti italiani. I catalani rivendicano con orgoglio la propria tradizione e ricordano ancora con odio il periodo del franchismo, quando esprimersi nella loro lingua veniva considerato un reato perseguibile. Le origini storiche della loro autonomia da Madrid risalgono addirittura al 987 quando Barcellona rifiutò la sottomissione al Re di Francia Ugo Capeto e prosegue con la Monarchia spagnola, che concesse alla Catalogna la possibilità di auto-gestirsi con un governo proprio, la Generalitat. Attualmente, secondo il suo Statuto, la Catalogna si auto-dichiara nazionalità. Il suo peso all'interno della Monarchia spagnola è tutt'altro che irrilevante: il 16% della popolazione vive in Catalogna e soprattutto da questo Stato proviene il 20% del Pil nazionale. Un dato che ha presente sicuramente il Premier ed esponente del Partito Popolare Mariano Rajoy, che ha mostrato intransigenza sulla questione secessionista, minacciando addirittura di inviare carri armati in Catalogna. Peccato che le urne abbiano sconfessato questa ipotesi: il fronte per l'indipendenza, guidato da Artur Mas, Presidente della Regione, in coalizione con i radicali di sinistra del Cup, ha ottenuto 72 seggi su 135, con una percentuale di votanti che si attesta però al 47,8%, su un affluenza totale di votanti del 77%. Ciò significa che il referendum ha riscosso un grande successo ma non ha ottenuto una investitura popolare piena, tale da legittimare la richiesta di secessione da Madrid. Lo stesso Rajoy ne è uscito estremamente indebolito: per la sua coalizione soltanto 11 seggi, contro i 25 del movimento unionista di centro-destra "Ciudadanos", che si conferma come seconda forza politica della Regione ed espressione di quei cittadini che non desiderano l'indipendenza. Solo 16 i seggi del Partito socialista. Questo esito incerto, non ha trattenuto Mas dal fare proclami trionfalistici su una futura indipendenza "unilaterale": le implicazioni di una probabile secessione però hanno contorni ancora poco definiti. Basti pensare al fatto che, proclamando la sua indipendenza, la Catalogna risulterebbe fuori dallo Stato spagnolo ma anche dall'Unione Europea e dall'area Euro. L'uscita dall'Euro potrebbe creare problemi di investimenti e di liquidità di denaro simili a quelli che si sono verificati in Grecia pochi mesi fa. A Bruxelles, infatti, la questione tiene col fiato sospeso molti leader europei, specie Inglesi e Francesi, che vivono situazioni medesime e che pertanto hanno appoggiato la causa del no. Inoltre, la idolatrata squadra calcistica del Barcellona, che raccoglie molto più del semplice consenso dei tifosi - tanto che il suo pay-off è "mès que un club", "più che una squadra" - non potrebbe partecipare al campionato della Liga spagnola, poiché secondo il regolamento risulterebbe la squadra di un'altra nazione, andando ad intaccare così interessi e giri di affari multimilionari. Per la Catalogna il percorso verso l'indipendenza non sarebbe così agevole come prefigurato da Mas: è vero che ci sarebbe una distribuzione di tasse e profitti sul solo territorio catalano, stimata in un gettito immediato di 16 miliardi, ma è anche vero che ci sarebbero costi da sostenere molti più gravosi di quelli attuali, come quelli per la difesa. Tuttavia molti esperti di economia, tra cui quelli del Wall Street Journal, parlano di una secessione possibile se preparata con accordi e realizzata con tempi congrui, che non possono essere quelli immediati. L'unico risultato che queste elezioni avrebbero dovuto produrre nell'immediato avrebbe dovuto essere quello di un margine di consenso maggiore da parte di Mas per avviare un nuovo dialogo con il governo madrileno. Le notizie dell'ultima ora però, smentiscono anche questa opzione: Mas, con il disappunto di molti è stato ufficialmente accusato di "disobbedienza", abuso di potere e appropriazione indebita di fondi pubblici. Le accuse sono riconducibili ai fatti verificatisi in occasione del referendum per l'indipendenza catalana convocato nel 2014 e dichiarato illegale dalla Corte Costituzionale iberica. Mas rischia, se dichiarato colpevole, il pagamento di una multa, la reclusione o l'interdizione dai pubblici uffici. Sono in molti tra gli indipendentisti a gridare al "processo politico": così Arturo Mas si ritrova a dover affrontare un'ulteriore grana, oltre alla già difficile mediazione con Governo e alleati. C'è chi però in Catalogna vive già da tempo la sua personale sfida contro Madrid ed è la piccola cittadina di Gallifa. 215 abitanti che già da tre anni si considerano indipendenti e si rifiutano di versare i 1.600 euro di servizi allo Stato Centrale: tale denaro viene infatti dato all'Agenzia catalana delle Imposte, affinché venga utilizzato per lo "Stato della Catalogna". Gallifa si definisce fieramente il primo paese totalmente "despagnolizzato" e ha autoproclamato la sua sovranità fiscale in attesa che accada per il resto della Catalogna. Per la Spagna la questione dell'indipendenza catalana non è soltanto folklore: è una delle questioni socio-politiche più importanti a partire dalla caduta della dittatura di Franco. Questo spiega perché la popolazione ne è infervorata. Alle preoccupazioni degli iberici si uniscono quelle degli europei che attendono di sapere chi la spunterà in questo braccio di ferro che fa tremare i polsi, perché potrebbe cambiare le sorti e la geografia del vecchio Continente.

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Amburgo. Parte finalmente la tanto attesa (e richiesta) procedura di Arbitrato davanti al Tribunale internazionale del Diritto del Mare (Itlos) in merito alla questione della Enrica Lexie e dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. "La frustrazione, lo stress, il deterioramento delle condizioni mediche delle persone direttamente e indirettamente coinvolte, minacciano un grave danno ai diritti dell'Italia. Per questo bisogna risolvere la situazione con urgenza". Così ha dichiarato l'ambasciatore Frazncesco Azzarello durante l'avvio della prima udienza ad Amburgo. I due marò accusati dell'omicidio di due pescatori in India sono da oltre tre anni al centro di un impasse di cui non si riesce ad uscirne fuori. Il Governo Italiano ha attivato la procedura di Arbitrato internazionale il 26 Giugno scorso chiedendo "misure cautelari" urgenti a tutela dei marò: che Latorre possa restare in Italia a curarsi dall'ictus che lo colpì nell'ambasciata d'Italia a New Delhi e il Fuciliere di Marina Salvatore Girone possa farvi rientro, che vengano infine sospese le procedure della giurisdizione a carico dei marò, nel contesto e fino alla conclusione del procedimento arbitrale. La replica del governo indiano non si è fatta attendere: "Descrivere il sergente Girone come un ostaggio è del tutto inappropriato e offensivo ed è dimostrato dal fatto che a entrambi i marò è stato consentito di tornare due volte in Italia", si legge, mentre nel pomeriggio i giudici ascolteranno le ragioni di New Delhi. Oggi le delegazioni risponderanno alle rispettive domande e vi saranno le repliche e le richieste conclusive dell'Italia all'Itlos. La decisione dell'Itlos, vincolante per entrambi i Paesi, sulle richieste italiane non prima del 24 Agosto. Sarà invece il collegio arbitrale dell'Aja, una volta diventato operativo, a decidere nel merito della controversia e, eventualmente, a ribaltare le decisioni dell'Itlos. Un procedimento che però, a detta degli esperti, durerà qualche anno.

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Era il 6 Agosto 1945, ore 8.15 del mattino, quando il Boeing USA B-29 Superfortress "Enola Gay" sganciava su Hiroshima la prima bomba atomica a uso bellico chiamata "Little Boy", cogliendo di sorpresa la città, importante centro navale e militare. Lo spostamento d'aria di eccezionale potenza rase al suolo case e edifici nel raggio di circa 2 chilometri. Ai gravissimi effetti termici e radioattivi immediati (80 mila morti e quasi 40 mila con più di 13 mila dispersi) si aggiunsero negli anni successivi gli effetti delle radiazioni, che portarono le vittime a quota 250 mila. Il 9 Agosto toccò a Nagasaki subire lo stesso destino con "Fat Man", la seconda bomba. Morirono 70 mila persone prima della fine del 1945 e altrettante negli anni successivi. Il 14 agosto, la riunione del governo nel rifugio antiaereo del Palazzo imperiale vide l'imperatore Hirohito annunciare la volontà di arrendersi dopo i drammatici bombardamenti delle due città. Il 15 Agosto, il suo discorso di resa fu consegnato alla radio. Era definitivamente conclusa la Seconda Guerra Mondiale. Il nuovo e spaventoso ordigno era stato sperimentato dagli Usa nel deserto del New Mexico il 17 luglio 1945. Dopo gli eventi di Hiroshima e Nagasaki, l'immagine del "fungo atomico" entrò nell'immaginario collettivo come simbolo di una minaccia mai conosciuta prima dall'uomo: la distruzione totale della vita sulla terra, di cui sono testimoni gli 'hibakusha', i sopravvissuti della bomba, circa 192 mila persone, con età media di 79 anni. L'anno scorso l'elenco delle 292.325 vittime dei bombardamenti è stato posto in un cenotafio, nel Parco della Pace dove ogni 6 agosto si tiene una cerimonia di commemorazione. Tutto si illumina di centinaia di lanterne di carta colorate adagiate sul letto del fiume Motoyasu, di fronte al monumento della pace, l'ex cupola della prefettura, l'unico edificio sopravvissuto alla bomba, rimasto intatto da allora. "Presenteremo una nuova risoluzione all'Assemblea Onu per l'abolizione delle armi nucleari". Lo ha annunciato il premier giapponese Shinzo Abe Ai piedi della cupola di metallo e cemento che marca l'orizzonte del Memoriale della Pace, l'unico rudere lasciato in piedi come memento della devastazione nucleare). Presente per la prima volta alla commemorazione anche l'ambasciatrice americana Caroline Kennedy. Il sindaco della città Kazumi Matsui ha sollecitato i leader mondiali a "promuovere la fiducia reciproca col dialogo", unica via per una pagina nuova libera dall'orrore del nucleare, e ha annunciato che inviterà i leader di tutto il mondo a visitare la sua città per approfondire la comprensione delle terribili ferite delle armi nucleari, mai del tutto sanate. "Non credo si debba fare - ha detto Matsui - una questione se debbano chiedere scusa o no. Quello che vorrei è che i leader, visitando la città, si convincano che in futuro non debbano più permettere che cose di questo genere accadano di nuovo".

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Atene. Crollo verticale per la Borsa ellenica che ha riaperto stamane dopo cinque settimane di chiusura, arrivando prima a toccare il record del -22,87% a 615,6 punti, per poi stabilizzarsi intorno al -17%. A trascinare nel baratro il listino sono i titoli bancari, come National Bank of Greece e Piraeus Bank, che perdono il 30%. Negli ultimi 12 mesi la borsa greca ha accumulato una flessione del 47%, risultando uno dei mercati peggiori al mondo, mentre sullo sfondo rimangono ancora aperti i negoziati per il terzo piano di salvataggio della Grecia. Deboli sono apparse invece le borse europee: Francoforte, Madrid, Parigi e Londra perdono terreno mentre Milano apre in positivo. Per la Grecia si è trattato del più lungo periodo di chiusura del mercato azionario greco dagli Anni Settanta. Da oggi gli investitori greci possono acquistare azioni, obbligazioni, derivati e warrant, ma solo se useranno denaro nuovo come fondi trasferiti all'estero, depositi in contanti, soldi guadagnati dalla vendita di azioni future o da saldi dei conti esistenti su investimenti detenuti da società di intermediazione elleniche. Gli investitori stranieri, invece, saranno esclusi da qualsiasi restrizione a condizione che fossero già attivi nel mercato prima dell'imposizione del controlli sui capitali alla fine di giugno. Intanto, con il dilagare della crisi, i medici di base in Grecia hanno iniziato da oggi uno sciopero parziale contro la cassa pubblica per le prestazioni sanitarie, Eopyy, che ha accumulato pesanti debiti nei confronti degli studi medici. I medici, circa 8 mila, accettano di curare i pazienti solo con pagamento in contanti.

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Washington. "Il più grande e importante passo mai intrapreso per combattere i cambiamenti climatici". Così ha annunciato il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama in un video diffuso sulla pagina Facebook della Casa Bianca. Il "Clean Power Plan", fortemente voluto da Obama, intende accelerare il passaggio alle fonti di energia rinnovabili e pone obiettivi più stringenti per ridurre le emissioni di gas nocivi delle centrali a carbone. "Il clima - ha sottolineato Obama - sta cambiando in un modo che colpisce la nostra economia, la nostra sicurezza e la nostra salute. E questa non è un'opinione, è un fatto". L'obiettivo è quello di ridurre l'inquinamento provocato dalle centrali a carbone del 32% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005 (un salto del 9% rispetto a quanto previsto prima). Il 40% dell'energia elettrica consumata dagli americani, infatti, è ancora prodotta in centrali a carbone che producono il 31% delle emissioni dei gas nocivi negli Stati Uniti. Gli stati e i fornitori che accelereranno gli investimenti in energia solare ed eolica saranno premiati con incentivi. "I cambiamenti climatici non sono un problema per la prossima generazione. Non più", ha affermato il presidente, che della protezione dell'ambiente ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, con l'intenzione di ottenere per la prima volta risultati significativi. La notizia arriva a sei mesi dalla decisiva conferenza sul clima che si svolgerà a Parigi a partire dal prossimo 30 Novembre all'11 Dicembre.

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Tokyo. La Dieta giapponese ha approvato i due disegni di legge proposti dal governo guidato da Shinzō Abe, relativi alla revisione ed al ruolo delle forze armate. I provvedimenti mirano ad incrementare i poteri dell'esercito e, dopo essere stati promossi dalla Camera bassa, saranno con ogni probabilità ratificati anche dall'altro ramo del Parlamento nipponico. Il Partito Liberaldemocratico del premier Abe, infatti, domina incontrastato l'organo legislativo, nonostante le numerose proteste che il disegno di legge ha suscitato sia nelle opposizioni che nella società civile. L'Economist, di recente, ha evidenziato i sondaggi effettuati da diverse agenzie elettorali nel paese, i quali hanno registrato un vero e proprio crollo nei consensi in favore del Primo Ministro fino a punte del -40%. Una delle ragioni risiede proprio nella eventuale positivizzazione dell'ultimo provvedimento. Secondo un monitoraggio di The Asashi Shimbun, che riprende sondaggi dell'agenzia NHK, oltre metà dell'elettorato attivo è contrario alla riforma. Questa, infatti, rappresenterebbe una violazione dello spirito della Costituzione nipponica, partorita all'indomani della tragedia del secondo conflitto mondiale. La legge fondamentale giapponese si fonda, difatti, su principi che risentono della mutuazione confuciana, quali la non ingerenza negli affari altrui, la non belligeranza ed il pacifismo. La nuova legge, invece, permetterebbe alle forze armate del Sol Levante di partecipare a missioni fuori dai confini, sia per esigenze interne del paese che per sostenere gli alleati, in nome di una dottrina che fa eco all'imperialismo di inizio secolo. La Costituzione, pertanto, potrebbe essere intaccata non solo in senso sostanziale, ma anche da un punto di vista formale, con opportune correzioni al testo apportate da uno dei due provvedimenti. Non appare vano pensare che il nuovo corso sia dettato da paure di accerchiamento da parte dell'esecutivo, da tempo impegnato in una vera e propira battaglia geopolitica con scomodi vicini come Cina e Corea del Nord, della quale la vertenza relativa alle isole Senkaku è solo uno degli ultimi sintomi. Nel frattempo, il contrasto alla nuova legge cresce sia all'interno delle aule parlamentari che per le strade del paese. Numerosi attivisti hanno sfilato negli scorsi giorni a Tokyo, manifestando la loro protesta anche all'esterno delle camere.

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Vienna. E' stato siglato il 14 Luglio a Vienna, dopo diversi mesi di trattative, lo storico accordo sul programma nucleare iraniano da parte di Teheran e dei paesi del gruppo 5+1. L'intesa, raggiunta dopo lunghi e faticosi negoziati diplomatici, prevede che l'Iran riduca di due terzi le sue capacità di arricchimento dell'uranio, fermando l'impianto di Fordow e rimuovendo il nucleo del reattore della centrale nucleare di Arak. Teheran permetterà inoltre agli ispettori dell'Aiea (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) di visitare i propri siti nucleari e militari (a condizione che gli stessi provengano da paesi coi quali l'Iran ha relazioni diplomatiche). In caso di riscontri positivi, le sanzioni precedentemente imposte da Ue, Onu e Stati Uniti saranno rimosse. Iran e Aiea hanno già raggiunto un'intesa per un calendario comune di incontri tecnici e di discussioni sull'attività nucleare di Teheran, da condurre in porto entro la fine del 2015. "E' possibile muoversi in una nuova direzione", ha sottolineato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. "Porrò il veto - ha continuato - a qualsiasi legge che si opporrà all'attuazione dell'intesa sul nucleare iraniano". "L'accordo semina una nuova speranza per un processo di pacificazione regionale", ha chiosato il premier italiano Matteo Renzi. Reazioni contrastanti provengono invece da Israele. Se l'accordo è stato salutato con favore dalla stampa progressista (per Haaretz l'intesa è un "traguardo storico" che rompe la visione di un Iran come paese "insensato, guidato da retrogradi studiosi della legge islamica"), di parere diametralmente opposto è il primo ministro Benjamin Netanyahu: "Questo accordo rende il mondo molto più pericoloso", ha dichiarato, "mettendo a rischio il nostro futuro comune". Il "duro e onesto sforzo" compiuto dai negoziatori è stato invece salutato con favore dalla Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei.
(foto Associated Press)

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Atene. Alla fine, dopo lunghi negoziati, l'accordo tra la Grecia ed i creditori è stato raggiunto. Nella mattinata di lunedì 13 Luglio, fonti governative elleniche hanno confermato il raggiungimento di un'intesa, condensata in un documento preliminare di 7 pagine non particolarmente dettagliato, che contiene tuttavia i crismi generali dellle volontà delle parti. Il testo prevede condizioni molto dure per la Grecia: anzitutto, il governo Tsipras dovrà dare subito la stura ad una serie di impegni assunti con le istituzioni comunitarie, a cominciare dalla riforma dell'Iva e dall'aumento delle imposte, passando per la revisione del sistema pensionistico e l'adesione cieca al Fiscal Compact. In secundis, la bozza d'intesa prevede riforme a medio-lungo termine che interesseranno diversi settori dell'economia pubblica: trasporti via mare ed imprese commerciali da liberalizzare, privatizzazione dell'Admie (l'azienda che gestisce la somministrazione di energia elettrica, ndr) e revisione integrale dell'apparato lavoristico, con l'adozioni di misure a dir poco stringenti per i lavoratori. Il protocollo prevede altresì le modalità con le quali tali innovazioni andranno portate avanti, con l'assegnazione di un ruolo preminente alle istituzioni europee, chiamate a monitorare e controllare ogni singolo passaggio delle riforme, sulle quali avranno sempre l'ultima parola. L'elenco rappresenta solo una bozza minima delle condizioni necessarie per condurre in porto l'accordo: solo ad attuazione avvenuta la troika darà mandato per negoziare i contenuti veri e propri del memorandum. Per nulla dettagli, anzi. Di fronte a questa dinamica, nel paese ellenico sono scoppiate numerose polemiche. Le targhe sindacali hanno già proclamato uno sciopero per protestare contro le condizioni infami imposte al paese. La destra ha già manifestato l'intenzione di non aderire all'accordo, mentre i neonazisti di Alba Dorata iniziano a soffiare sul fuoco delle tensioni. Il patto è stato stigmatizzato su buona parte della stampa internazionale. Dopo l'editoriale di fuoco di Paul Krugman, il New York Times ha rincarato la dose, affermando che l'ultimatum imposto alla Grecia ha tutte le sembianze di una resa incondizionata di un paese che ha ormai perso ogni briciolo di sovranità. Il tutto per preservare un folle "progetto europeo" che nulla ha a che fare con la solidarietà tra i popoli. Al centro di un fuoco incrociato si è chiaramente trovato il primo ministro Alexis Tsipras, accusato in primis di aver cestinato l'esito pressoché plebiscitario del referendum popolare contro le ennesime misure d'austerity imposte dalla Troika. Nel corso di un'intervista rilasciata al New Statesmen, l'ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis (dimessosi per facilitare i negoziati, ndr) non ha lesinato parole al veleno: "Il no al referendum ci ha dato una spinta incredibile - ha raccontato - che poteva condurre poco alla volta al Grexit. Ma presto si è capito che il governo non voleva una simile reazione. Anzi, ha portato a concessioni dal lato opposto. L'Ue non ha alcuno scrupolo democratico: tutto ciò, dunque, avrebbe significato piegarsi alla loro volontà, smettere di negoziare".

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Madrid. Il governo spagnolo ha varato, lo scorso 1 Luglio, una nuova legge in materia di sicurezza, già ribattezzata, con un epiteto che fa ben intuire l'aria che tira intorno al provvedimento, Ley Mordaza. La legge, già approvata dalle Cortes Generales nello scorso mese di Marzo, è stata voluta con forza dall'esecutivo di centrodestra guidato da Mariano Rajoy, nonostante le numerose perplessità fatte pervenire in merito al testo da eminenti giuristi, Ong, attivisti e movimenti per i diritti umani. Le nuove norme prevedono, infatti, una stretta decisa in merito alla libertà di associazione e di partecipazione ad eventi di massa, con una serie di sanzioni volte a disincentivare meccanismi di disobbedienza civile. Sono infatti previste multe fino a 30 mila euro per i cittadini che prendono parte a manifestazioni non autorizzate, o che interrompono manifestazioni pubbliche o ancora rifiutano di farsi identificare dalla Guardia Cìvil. La propaganda delle manifestazioni "non gradite", in maniera del tutto arbitraria, è vietata anche sui social network, così come è bandita la pubblicazione di immagini della polizia. Giro di vite anche sul consumo di alcol e l'assunzione di droghe in luoghi pubblici: entrambe le pratiche sono scoraggiate con la previsione di sanzioni fino a 30 mila euro. Nei giorni scorsi migliaia di manifestanti hanno sfilato per le strade di Madrid per protestare contro l'entrata in vigore di una legge repressiva e liberticida. Il New York Times, nello scorso Aprile, ha considerato il provvedimento come un riverbero dell'era di Francisco Franco, aggiungendo che esso "has no place in a democratic nation", non può cioè avere spazio in un paese democratico. Il diritto di protestare pacificamente, come hanno ricordato anche le Nazioni Unite, e di esprimere collettivamente un'opinione è fondamentale per l'esistenza della libertà e la realizzazione di una società veramente democratica. Non è compito dello Stato fissare paletti tanto restrittivi da elidere, in maniera totalitaria, il diritto di libera espressione, come arguito dalle principali associazioni di giuristi spagnoli. La nuova legge, come sostenuto da più parti nel paese iberico, servirà a rinsaldare il potere di un Partito Popolare (PPE) sempre più in calo nei consensi, scoraggiando le proteste anti-austerity, che hanno spinto molti elettori a dare appoggio a partiti radicali come Podemos, e ripristinando un inquietante primato con tanto di poteri eccezionali della polizia. Le opposizioni, a tal proposito, hanno già annunciato il ricorso per sollevare l'indubbia incostituzionalità della legge.

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Atene. La Grecia dice "No" ai creditori nel referendum indetto da Tsipras. Un trionfo oltre ogni aspettativa e una severa bocciatura alle politiche di austerità volute dalla Troika. "Abbiamo dimostrato che la democrazia non può essere ricattata. I greci hanno fatto una scelta coraggiosa, che cambierà il dibattito in Europa", così ha esultato il leader di Syriza al termine di una giornata storica, una speranza per una nuova Europa. Tsipras chiede ora un accordo con i partner internazionali, in tempi rapidi, anche "entro 48 ore", nonostante la cancelliera Angela Merkel abbia subito liquidato il risultato con "Tsipras sta mandando la Grecia contro un muro". La Grecia ha vinto una drammatica quanto fondamentale battaglia per cambiare lo status quo, ma resta ancora ardua l'uscita dal tunnel, ed evitare una Grexit. Nella serata di ieri, infatti, le agenzie Jp Morgan e Barclays hanno fatto sapere che dal loro punto di vista l'uscita della Grecia dall'euro è adesso lo scenario più probabile.