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"La Bce non è una banca centrale indipendente. E' una banca centrale che si è schierata con una delle due parti in causa, i creditori. E per piegare i greci non ha esitato a usare la politica monetaria, che invece dovrebbe essere al di sopra degli interessi politici particolari". Così l'economista italiano Pier Giorgio Gawronski, intervistato da "Il Fatto Quotidiano", nella sua analisi sulla situazione attuale della Grecia. Secondo l'economista, il precipitare degli eventi negli ultimi giorni è stato causato dalla sospensione, da parte della Bce, di fornire altra liquidità d'emergenza (la cosiddetta Ela) agli istiuti bancari greci. Le banche centrali di tutto il mondo hanno, di fatto, l'obbligo di fare da prestatori di ultima istanza, cioè di garantire la liquidità del sistema bancario: quando aumentano i prelievi, le banche centrali aumentano il livello di liquidità agli istituti. Tuttavia, la Bce ha deciso di fermarsi nei confronti della Grecia, cedendo alle pressioni dei governi creditori. "Senza avere liquidità - ha spiegato Gawronski -, ad Atene non resta che stampare un'altra moneta (la dracma, ndr), ricapitalizzare le banche con quest'ultima e dare la possibilità di prelevare nella nuova moneta. L'introduzione della nuova moneta, secondo lo statuto della Bce, porterebbe automaticamente la Grecia ad uscire dall'euro". In queste condizioni, l'unica e concreta soluzione migliore per i greci sarebbe l'uscita dall'euro. "Non sarà una passeggiata - avverte l'economista italiano - ma seguire ancora una volta i voleri della Troika equivale a condannarsi a ripagare il debito in eterno: perché a ogni giro di austerità la somma aumenta, rispetto al Pil, e serve sempre nuova austerità".

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Copenaghen. Le elezioni poltiche danesi dello scorso 18 Giugno hanno decretato la vittoria della coalizione di destra guidata dall'ex Primo Ministro Lars Løkke Rasmussen, numero uno del partito liberale Venstre, grazie al 51,5% delle preferenze. Il margine di vittoria, sia pure sufficiente ai fini dell'amministrazione del paese, ha tuttavia subito evidenziato la sensibilità del blocco conservatore a scendere a patti con le forze più reazionarie del paese. Non hanno sorpreso, da questo punto di vista, le difficoltà riscontrate dal leader dei liberali nel corso delle consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo. Rasmussen, difatti, non è riuscito dall'inizio a disegnare un piano che comprendesse il favore di tutte le forze schieratesi con lui per la vittoria della tornata elettorale. Tra queste, un ruolo preminente va senza dubbio assegnato al Dansk Folkeparti, in sigla DF, il Partito del Popolo Danese guidato da Kristian Thulesen Dahl, di orientamento xenofobo e ipernazionalista. Alle elezioni il DF ha ottenuto il 21,1% delle preferenze, che tradotto significa essere il secondo partito politico del paese (dopo i socialdemocratici della premier sconfitta Helle Thorning-Schmidt) e, soprattutto, sommare ben 37 seggi in Parlamento. La forza d'urto del DF, imperniata sulla propaganda anti-Islam e sulla retorica anti-europeista ed anti-integrazionista, ha rappresentato l'autentica forza di traino per la coalizione guidata da Rasmussen: facendo forza sul ruolo di sponda giocato alle elezioni, il partito di estrema destra ha così preteso le massime garanzie dall'ex nonché futuro Primo Ministro. Nel corso della presentazione del nuovo governo alla Regina, avvenuta il 29 Giugno, Rasmussen ha annunciato la presenza di 17 uomini, tutti appartenenti al suo partito. La scelta disegna, così, una delle amministrazioni più deboli e minoritarie degli ultimi anni nel paese scandinavo, capace di raccogliere soltanto 34 deputati su un totale di 179. Appare plausibile la previsione per cui il governo monocolore, allo scopo di evitare un prematuro e quasi annunciato terremoto, dovrà suo malgrado scendere a patti con le forze più rappresentative in Parlamento. Sarà questa la dinamica con la quale il DF potrà fare la voce grossa. Un segnale in questo senso si è avuto meno di 24 ore fa, quando l'esecutivo ha annunciato il taglio dei sussidi ai richiedenti asilo in Danimarca allo scopo di scoraggiare eventuali future istanze.

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Atene. "Nessuno può ignorare questa passione, nessuno può ignorare questa agonia, questa voglia di vita per la speranza e per l'ottimismo". Così il premier greco Alexis Tsipras nel suo ultimo discorso prima del Referendum da lui stesso indetto per domenica 5 Luglio. Un Referendum per il quale chiede al suo popolo un ben preciso "No", con queste parole: "Oggi stiamo festeggiando per il coraggio e la nostra decisione di prenderci in mano per la nostra sorte e dare la parola al popolo greco. Oggi festeggiamo e cantiamo, cantiamo per superare la paura, per superare i ricatti. L'Europa che abbiamo conosciuto, l'Europa con i suoi valori fondatori non ha niente a che vedere con tutto questo che stiamo subendo. E oggi a quest'ora tuta l'Europa ha gli occhi su di voi, sul popolo greco, sui tre milioni di poveri e su tutti i disoccupati. Oggi tutto il pianeta ha gli occhi su piazza Syntagma, sulle piccole grandi piazze della nostra patria, sul luogo dove la democrazia è nata. Ridiamo un'altra occasione alla democrazia per farla tornare in Europa, perché l'Europa possa tornare ai suoi valori fondatori, che per tanti anni non ha applicato e ha costretto i popoli ha fare scelte che vanno contro la loro volontà. Tutti insieme daremo un messaggio di speranza alla democrazia e ai greci".
"Domenica non decidiamo semplicemente di rimanere in Europa, ma di rimanere con dignità, di avere un futuro e di essere uguali agli altri popoli dell'Europa. E credetemi: nessuno ha il diritto di minacciare che taglierà la Grecia fuori dal suo luogo naturale, nessuno ha il diritto di minacciare che dividerà l'Europa. La Grecia, la nostra patria, è, è stata e rimarrà la culla della civiltà europea. Da questo luogo, qui dice la mitologia che Zeus ha rapito Europa. Ora i tecnocrati della società vogliono portare via di nuovo Europa, noi diciamo no, non lasceremo l'Europa nelle mani di quanti vogliono rapirla dal suo passato democratico dai valori della solidarietà del rispetto reciproco. Cittadini di Atene, uomini e donne di ogni età che siete qui inondando piazza Syntagma sentendo il crescendo del terrore che ci viene fatto negli ultimi giorni. Cittadini di Atene, il popolo greco nella sua storia ha dimostrato molte volte di saper ritornare, di mandare indietro ultimatum. A volte gli ultimatum possono essere respinti. Le pagine più splendenti della storia di questo Paese e del popolo di questo Paese sono state pagine di coraggio e di virtù".
"Vi richiamo, quindi, a scrivere insieme momenti di storia di libertà. Vi invito questa domenica a dire di nuovo a dire un grande e orgoglioso no agli ultimatum, a voltare le spalle a coloro che vi stanno terrorizzando. E lunedì, qualunque sia il risultato di questo procedimento democratico che alcuni non volevano che avvenisse, volevano impedirlo, diremo un assoluto no alla divisione. Lunedì noi greci e greche non avremo nulla da dividere tra di noi: lotteremo insieme per ricostruire una Grecia migliore di questa che da cinque anni è stata ridotta in questo stato. Vi invito a mettere da parte le sirene del terrore che stanno urlando e che voi possiate decidere con calma e con cuore, che voi prendiate una decisione orgogliosa per una Europa democratica. Per un piccolo popolo che lotta senza spade, senza pallottole, ma con un'arma più forte di tutte: abbiamo la giustizia dalla nostra parte e quindi vinceremo, nessuno può nascondere questo. Cittadini di Atene, la libertà vuole virtù e coraggio, e tutti noi abbiamo virtù e coraggio. Siamo liberi e respiriamo aria di libertà. Qualunque cosa succede siamo noi i vincitori: la Grecia ha vinto, la democrazia ha vinto. Arrivederci e abbiate coraggio. Con libertà il nostro popolo andrà avanti, la Grecia resterà nell'Europa della solidarietà".

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Pechino. Ricorre oggi il 94esimo anniversario della fondazione del Partito Comunista Cinese, partorito a Shanghai il 1 Luglio del 1921, il medesimo anno nel quale nacque, a Livorno, il Partito Comunista Italiano. Il Pcc, oggi il più grande apparato politico esistente al mondo, vide la luce nel quadro della lotta intestina intrapresa contro il fragile governo locale da Sun Yat-sen e dal suo Kuomintang. Questi raccolse le adesioni dei rivoluzionari cinesi, tra i quali un giovane Mao Tse-tung, muovendo verso il Nord l'attacco decisivo nell'offensiva degli anni 1925-27, al termine dei quali il paese sarebbe ritornato sotto un solido e unico governo. Sebbene entrambi i partiti discendessero dal movimento anti-imperialista di inizio secolo, le loro strade erano destinate presto a separarsi, specie dopo l'ascesa all'interno del Kuomintang del comandante Chang Kai-shek, il carnefice dei comunisti cinesi, nel frattempo diventati piattaforma politica di riferimento della classe operaia delle prime grandi città (Canton, Shanghai) e delle masse contadine delle campagne. Fu proprio la guerriglia rurale intrapresa contro il Kuomintang a fare di Mao il leader indiscusso del Pcc, fino alla vittoria definitiva arrivata nel 1949, quando il Partito divenne di fatto, e fu riconosciuto come tale, il governo legittimo della Cina, catapultando ai posteri la leggenda di colui che sarà il Grande Timoniere. "Senza gli sforzi del Partito Comunista Cinese - si legge nel Libretto Rosso - e senza i comunisti cinesi, non sarebbe stato possibile ottenere l'indipendenza e la liberazione della Cina, e realizzare l'industrializzazione e la riorganizzazione dell'agricoltura". Il Pcc e il suo nucleo dirigente sono infatti "la guida della causa". Secondo il Global Times, che riporta fonti governative, il Pcc conta oggi 87,79 milioni di iscritti, con un incremento, nell'ultimo anno, di 1 milione di adesioni. Cifre che dimostrano, sottolinea l'agenzia di stampa ufficiale Xinhua, il rafforzamento "del vigore e della vitalità del partito" all'interno della Repubblica Popolare. Sono diverse le riforme avviate negli ultimi tempi da un governo sul quale, da sempre, si appuntano le attenzioni di addetti ai lavori ed osservatori internazionali, in particolare in ordine a profili che vanno dall'economia ai diritti umani. La Yifa zhiguo è solo l'ultima di queste: un disegno di riforma dottrinale e pratico molto ambizioso, che anela alla costruzione di uno Stato di diritto "sotto la guida del Partito" in grado di mediare tra comunismo, confucianesimo e capitalismo di recente estrazione.

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Shanghai. La crisi greca irradia i suoi effetti non soltanto sull'Europa, incidendo dunque anche sui destini di un sogno comunitario ormai sempre più obsoleto, ma anche oltre la catena degli Urali. Gli ultimi avvenimenti ellenici non hanno lesinato ripercussioni, di fatto, sulle borse asiatiche, soprattutto a causa dei timori relativi ad un eventuale effetto domino, come rivelano fonti cinesi. Tutte le borse fanno così registrare un calo compreso tra l'1,30% ed il 2,90%, da Tokyo fino ad arrivare a Sydney, ma un vero e proprio crollo verticale interessa la Borsa di Shanghai, cioè quella della Cina. L'ultimo switch datato 29 Giugno faceva registrare un -3,34%: in totale, negli ultimi 17 giorni, l'indice cinese ha perso circa il 20%. Già nei mesi scorsi la Cina aveva provveduto a tagliare i tassi per affrontare una frenata recente della dinamica produttiva. I risparmiatori, tuttavia, non hanno preso di buon grado la decisione, determinando così un vortice che si è trascinato sino agli ultimi giorni e sul quale vanno ora ad incidere anche le vicende di Atene.

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Atene. La comunità greca si avvia verso il referendum popolare del prossimo 5 Luglio relativo all'accordo con l'Unione Europea ed agli ukase imposti dalla Troika allo stato ellenico. Migliaia di persone sono già scese in piazza Syntagma ad Atene sin da ieri a sostegno del "No" al referendum promosso dal governo di Alexis Tsipras.
"Deve essere accettata la proposta sottoposta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale all'Eurogruppo del 25 giugno 2015, composta da due parti che insieme costituiscono la loro proposta complessiva? Il primo documento è intitolato 'Riforme per il completamento dell'attuale programma ed oltre' ed il secondo 'Analisi preliminare per la sostenibilità del debito'".
Questa la bozza di testo del referendum lanciata dal sito Greekanalist. Sulla scheda prima compare il "No", quindi il "Sì". Il piano avanzato dall'Eurogruppo prevede misure fiscali molto stringenti, dal taglio totale dei contributi agli agricoltori a quello dei sussidi, passando per una revisione integrale del sistema previdenziale e pensionistico, che la Troika ritiene "non sostenibile", e per un disegno di riforma della pubblica amministrazione, allo scopo di legare i salari ad un "merito" non meglio specificato. Nel programma, inoltre, anche la ridefinizione del surplus di bilancio e il taglio della spesa pubblica, a cominciare da quella militare. Nell'agenda europea anche una modifica del comparto lavorativo, soprattutto in merito ai profili di contratti e licenziamenti collettivi. Proprio quest'ultimo aspetto e la sforbicata alle pensioni restano due dei nodi più critici dell'intesa, tra i principali ad aver portato alla rottura sancita con il lancio della votazione popolare. Nel primo pomeriggio una nuova proposta avanzata dal Presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker è stata fatta pervenire ad Alexis Tsipras e fonti vicine a Bruxelles hanno fatto trapelare un velato ottimismo nella vicenda, non ancora confermato dalle parti di Atene. Anche l'Onu ha preso posizione sulla questione, affermando che "qualsiasi accordo tra Atene ed i creditori richiederà un compromesso da entrambe le parti".

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Si fa sempre più incandescente la situazione politica nello Yemen, lo stato asiatico a sud della penisola arabica che si affaccia sul corno d'Africa. Negli ultimi giorni l'offensiva portata avanti dagli Houthi, i ribelli sciiti che da inizio anno hanno spodestato le autorità yemenite facendo precipitare il paese in una sanguinosa faida interna, ha prodotto il suo massimo sforzo. In tutto questo le autorità saudite non stanno a guardare ma sembrano piuttosto solerti nel voler rispondere colpo su colpo e magari rovesciare il nemico. Il rischio, dunque, che nella regione si ripetano episodi di repressione del dissenso già verificatisi negli emirati gemelli è piuttosto alto. Nel 2011, infatti, la sollevazione degli sciiti del Bahrein contro il regime locale fu soffocata senza pietà dalle forze militari d'Arabia. In quello stesso anno lo Yemen faceva registrare la sua prima svolta a livello di politica interna: Saleh, il padre padrone del piccolo stato asiatico, al timone da 33 anni, fu costretto a lasciare i poteri in seguito ad una rivolta popolare. Le redini furono affidate al suo vice Hadi, spalleggiato da Usa e petrolmonarchie del Golfo. La politica di Hadi, tuttavia, è proceduta nell'intangibile solco della continuità rispetto al precedente regime, tanto da risvegliare i focolai di protesta in specie al Nord, dove attecchisce in maniera piuttosto forte la comunità sciita degli Houthi. Il quadro generale degli eventi è stato tuttavia ulteriormente complicato dal prepotente inserimento, all'interno di una contrapposizione solo apparentemente dualistica, del jihadismo di Al Qaeda prima ed Isis poi, le forze, forse, meno accreditate della vittoria finale ma comunque in grado di rappresentare un pericolo costante per le sorti piuttosto traballanti del paese. Ryad tuttavia non sta a guardare e, già da qualche giorno, ha ammassato ai confini le sue truppe militari e, proprio in mattinata, con l'ausilio di una coalizione che raggruppa forze di altri paesi, ha lanciato una prima offensiva nei confronti dei ribelli, L'operazione, appoggiata dagli Stati Uniti, ha portato secondo Al Jazeera alla conquista dell'aeroporto della città portuale di Aden ed alla morte di circa 20 persone. L'irrequietezza ed il sostanziale vassallaggio sembrano pertanto essere i tratti distintivi più marcati dello stato asiatico. La vecchia "Arabia Felix" dei Romani è andata incontro, nel corso dei secoli, alla dominazione del Califfato e di diverse dinastie fino alla conquista da parte dell'Impero Ottomano che, nell'ambito della sua tradizionale politica tributaria e di parziale federalismo, concesse ai paesi d'Oriente un sostanziale grado di autonomia. Le travagliate vicende del '900, la doppia secessione dello Yemen del Sud e gli irrisolti conflitti interni non hanno fatto altro che reiterare l'instabilità di un paese ormai spremuto dal punto di vista delle risorse naturali ed energetiche. L'attacco della coalizione guidata dall'Arabia Saudita, e sostenuto implicitamente da Usa e Consiglio di Sicurezza Onu, è stato condannato, dice Afp, dall'Iran, perché lesivo delle responsabilità internazionali e della sovranità nazionale dello Yemen. (Foto: ArabPress)

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Syriza, il partito di sinistra ellenico guidato da Alexis Tsipras, vince le elezioni politiche in Grecia ottenendo più del 36% delle preferenze e 149 seggi, 2 in meno rispetto alla maggioranza assoluta che avrebbe permesso al movimento di guidare il paese senza la necessità di ricorrere alla coalizione. Necessità che, ora, si palesa in tutta la sua evidenza, con Tsipras già seduto al tavolo delle trattative per concertare l'agenda del governo di Atene nei mesi a venire. Nea Dimokratia, il partito di centro-destra che ha trascinato la Grecia nel vortice spaventoso dell'austerity dettata dall'Unione Europea, raggiunge solo il 27,8% degli elettori, ottenendo 76 seggi. Spaventosa, come in tempi di crisi accade, l'adesione al movimento neonazista Chrysi Avghì (Alba Dorata), terzo partito del paese in grado di racimolare 17 seggi frutto della preferenza del 6,05% dei votanti. Quali scelte determineranno, ora, il nuovo corso ellenico targato Tsipras? Le agenzie hanno già battuto la notizia di una colazione di lavoro fissata in mattinata dai vertici della Troika. Draghi, Juncker, Tusk e Djisselbloem discuteranno con ogni probabilità degli esiti delle votazioni greche e delle possibilità apripista che potrebbero issarsi all'indomani della vittoria di Syriza, potenzialmente in grado di aprire una voragine all'interno della piattaforma comunitaria, sempre più apparato istituzionale del neocapitalismo. Le prospettive inaugurate da Tsipras si dirigono ora celermente alla prova dei fatti, di fronte ad una "rottura istituzionale" finora piantata sulla carta con il solo inchiostro. Certo, già in mattinata l'incontro di un'ora con Panos Kammenos, il leader del partito di destra Anel, lascia spiragli a soluzioni bipartisan piuttosto ampie, sebbene la maggioranza relativa consenta a Syriza la possibilità di scegliere con sufficiente certezza sulle riforme da portare avanti ad Atene. Ma l'apertura ad un così ampio arco parlamentare, e specie alle istanze provenienti dall'altra parte della barricata, non precludono affatto il rischio di un'esasperazione del conflitto in senso nazionalista e xenofobo, dinamica già conosciuta alla Grecia del recente passato, preda ad Atene come a Salonicco dell'assalto alle più elementari prerogative umane, sociali e politiche da parte delle truppe dello squadrismo di destra. Così come poco consolante appre l'entusiasmo per nulla recondito di Marine Le Pen, che con Tsipras condivide l'assoluta avversione all'agenda neoliberista comunitaria. Ipotesi, allo stato, non ancora suffragate dalla prova dei fatti. L'unico dato concreto che spinge a riflessioni più profonde è, allo stato, il profondo astensionismo che ha contraddistinto la tornata elettorale, prossimo alla quota record del 40%. In attesa della risposta del nuovo governo greco agli "ukase" provenienti da Bruxelles.

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L'Organizzazione Mondiale della Sanità parla di un contagio dall'avanzata esponenziale: il bilancio delle persone che hanno contratto il virus Ebola si attesta attualmente intorno agli 8 mila casi, di cui quasi la metà mortali. La situazione è maggiormente aggravata dalla possibilità che il virus possa propagarsi al di fuori dagli Stati africani che in questo momento ne sono colpiti maggiormente: Guinea, Liberia e Sierra Leone. Per conformazione geografica tali Stati sono composti da piccoli villaggi molto distanti tra loro, per questo finora è stato possibile contenere in qualche modo la crescita dei casi, ma qualcosa sembra essere andato per il verso sbagliato. Il rientro in patria di alcuni operatori umanitari attivi nella zona - come il cosiddetto paziente "zero" Thomas Eric Duncan, morto lo scorso mercoledì negli States e l'infermiera spagnola Teresa Romero, ancora ricoverata - dimostrano che il pericolo di una diffusione della malattia anche in Occidente esiste e che le pratiche igienico sanitarie dei nostri ospedali, sebbene decisamente superiori a quelle dei nosocomi africani, non sono sufficienti a tenere a bada la virulenza della malattia, che si trasmette esclusivamente attraverso il contatto con fluidi corporei. Peter Piot, il medico belga che nel 1976 ha contribuito alla scoperta di Ebola - il nome della malattia deriva appunto dall'omonima Valle nella Repubblica Democratica del Congo dove morì una suora belga da cui l'equipe di Piot, allora 27enne, estrasse il primo campione di materiale di studio - lancia l'allarme raccontando che qualsiasi piccola distrazione o leggerezza può risultare fatale: lo dimostra il contagio dell'infermiera 26enne Nina Pham, che si era occupata del paziente zero Duncan. Secondo gli studi e le conoscenze finora accumulate sulla malattia, si esclude che questa possa propagarsi per via aerea, poiché le sue modalità di trasmissione prendono di mira esclusivamente vasi sanguigni e fegato e non le vie respiratorie. Una parte di studiosi sostiene che alcuni chirotteri detti "volpi volanti" siano portatori sani del virus e che questi siano arrivati ad infettare prima la scimmia e poi l'uomo grazie al fenomeno molto diffuso del "bush-meat", ossia il consumo di carne di animali selvatici come antilopi e scimpanzè, in crescita esponenziale da quando compagnie occidentali ed asiatiche hanno invaso le foreste africane in cerca di legname e minerali. Tuttavia, alcuni scienziati sostengono la carta della modificazione genetica del virus, di cui finora se ne conoscevano quattro ceppi, di cui tre letali. Il quotidiano online Lettera 43 parla di un tragico esperimento di laboratorio condotto in ambito militare negli Stati Uniti, in Canada e in Russia che aveva lo scopo di rendere il virus più potente e pervasivo, in modo da poterne studiare rimedi e farmaci efficaci; in questo ambiente protetto potrebbe esserci stata la "fuga" del virus e il conseguente propagamento. A questo tipo di incidente gli scienziati sembrano abituati perché parrebbe all'origine di altre epidemie passate, come quella del 1976 in Inghilterra e del 2004 negli Stati Uniti stessi. Questi tipi di ricerca, detti "dual research" (ricerca a doppio taglio), nascono con lo scopo di fronteggiare eventuali attacchi di bio-terrorismo. Tuttavia un vaccino che curi la malattia non è ancora confermato dalle case farmaceutiche, le quali, fiutando l'affare sono scese subito in campo per accaparrarsi il primato. Intorno all'epidemia si è infatti determinato un vero e proprio sconvolgimento di tipo economico: Forbes riporta un calo delle borse in Usa alla notizia dell'arrivo del virus nel paese e numerose compagnie aeree hanno dovuto eliminare le mete africane dalle loro tratte, la produzione di cacao della vicina Costa d'Avorio, secondo il Wall Street Journal sarebbe aumentata del 10% in poche settimane per paura di un eventuale entrata del virus nello Stato. Mentre molte aziende e multinazionali subiscono una brusca battuta d'arresto nelle loro attività commerciali, altre ottengono grandi benefici: è il caso della newyorkese Lakeland Industries, che produce guanti e tute di protezione, le cui azioni sono aumentate del 30% dall'inizio dell'epidemia o della malese Top Glove, che grazie ai suoi guanti di gomma ha aumentato del 10% le sue azioni. La multinazionale farmaceutica inglese GlaxoSmithKline che ha annunciato di voler scendere in campo nella lotta contro la malattia ha visto aumentare le sue azioni in breve tempo dell'1,1%. La stessa qualche giorno fa, ha smentito la notizia di aver acquisito i risultati di un vaccino sperimentale creato proprio in un laboratorio italiano. In realtà però sembra che tra le varie cure sperimentali, il siero Zmapp, ottenuto da piante del tabacco geneticamente modificate, della californiana Mapp Biopharmaceutical - finanziata dall'autorità americana con 24,9 milioni di dollari insieme alla canadese Tekmira - dia dei risultati discreti. Esso finora è stato sperimentato su sette pazienti. Si spera che dia ottimi risultati anche il vaccino della Profectus BioSciences, finora testato soltanto sulle scimmie: i tempi per i test e la produzione su larga scala si preannunciano piuttosto lunghi, per via della fase ancora delicata in cui sono le ricerche. Si parla infatti del 2015: un tempo inaccettabile per arrestare l'epidemia dell'Africa Occidentale.

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La sospensione della partita di calcio tra Serbia ed Albania, a causa dei disordini scoppiati tra gli atleti sul terreno di gioco dello stadio "Partizan" di Belgrado, rappresenta il capitolo più recente del corposo volume delle tensioni che attraversano l'area della ex Yugoslavia e, più in generale, lo spazio post-sovietico. A provocare gli incidenti è stato un drone che ha sorvolato il rettangolo verde con una bandiera della Grande Albania, e non del Kosovo, come praticamente il 99% dei quotidiani ha riferito (al centro del vessillo, infatti, campeggiavano i ritratti degli eroi dell'indipendenza nazionale dall'Impero Ottomano, Boletini e Kemali). Quando, nel 1989, l'allora presidente yugoslavo Slobodan Milosevic abolì lo statuto di provincia riconosciuto al Kosovo, a maggioranza albanese, in seno alla Serbia, il fuoco dell'odio nazionalista cominciò nuovamente a tormentare il popolo dell'area balcanica. L'atto di Milosevic, condito da una prolusione fanatica in terra kosovara (idealmente parte della Grande Albania, insieme a porzioni di Macedonia, Grecia e Montenegro), servì da apriscatole all'insediamento di altri leader reazionari come il croato Franjo Tudjman, fautore della campagna di discriminazione dei serbi nella repubblica. La Yugoslavia creata da Tito (ЈоÑип Броз Тито) cominciava a dissolversi alle porte dei '90, di fronte al comportamento complice dell'Occidente e della Nato, che con la successiva ingerenza materiale contribuì allo sfaldamento definitivo del mosaico costruito con fatica dal leader comunista. Sin dal tempo della Resistenza antifascista, Tito aveva riunito sotto la bandiera comune le forze eterogenee degli "slavi meridionali" (jugo sta, appunto, per "sud"), fatta eccezione per gli ustascia croati ed alcuni tradizionalisti di stanza a Belgrado. Nelle schiere dei partigiani titini figuravano serbi di Croazia e Bosnia e soprattutto montenegrini, che offrirono all'esercito di liberazione il grosso degli ufficiali. La lotta contro il nemico comune, i regimi parafascisti direttamente dipendenti dall'Italia mussoliniana e dalla Germania nazista, aveva rinsaldato i rapporti tra le eterogenee comunità locali, contribuendo all'accantonamento dei particolarismi. Lo stesso Pcj trovò terreno fertile per la costituzione della Resistenza contro l'oppressore esterno, potendo così preparare la svolta federalista promessa da Tito per il dopoguerra, volta ad una maggiore autodeterminazione ed emancipazione degli stati, e che avrebbe dovuto includere anche l'Albania. Lo sfacelo seguito alla morte di Josip Broz e le spaccature interne al partito hanno riesumato vecchie tensioni, che erano state riposte nello stanzino grazie all'autorevolezza del leader ed al miglioramento lento e a macchia di leopardo delle condizioni di vita di una terra per l'80% votata all'agricoltura. E ciò nonostante i tentativi di interferenza dell'Occidente politico, accentuati dopo la morte del Maresciallo, sempre pronto a soffiare sulle fiamme dei nazionalismi. Con il venir meno del collante politico ed il problema del debito pubblico, determinati interessi sociali piuttosto diversificati hanno assunto prevalenza, connettendosi alle istanze rivendicative. Ed è stato quando l'elemento politico ha assunto centralità, corroborato da pressioni esterne, che si è scatenata la dimensione etnica. Se gli accordi di Dayton del 1995 da un lato permisero di fermare l'escalation di crimini commessi da ambo le parti durante la guerra di Bosnia, dall'altro non consentirono di disciplinare, con una buona dose di opportunismo e mala fede assassina, la questione relativa al Kosovo, che si ripresentò dopo pochi anni nelle forme che tutti conoscono. I pogrom ai danni degli abitanti kosovari condotti dai fascisti serbi sostenuti da polizia ed esercito, la reazione di piombo dell'Uck e gli infami bombardamenti Nato sulla popolazione civile a Belgrado hanno rappresentato lo strascico sanguinario di una guerra protrattasi sino al 1999. Da qualche anno il Kosovo, sotto la stretta sorveglianza delle Nazioni Unite, si è proclamato indipendente. La dichiarazione unilaterale del Parlamento di Pristina, arrivata sostanzialmente al culmine di una vera e propria occupazione Nato che vi ha installato la terribile base militare di Camp Bondsteel, ha incontrato la ferma opposizione di Belgrado, che soltanto negli ultimi anni ha mostrato segnali di apertura, pur senza mai riconoscere ufficialmente la Repubblica. La stessa Unione Europea, con il suo solito fare pilatesco, non ha preso posizione in materia, lasciando ampia autonomia sull'atto politico ai vari Stati membri. Da un punto di vista strategico l'indipendenza, oltre che ridisegnare nuovamente la geografia dell'area balcanica, rischia di incoraggiare focolai sempre pronti a rianimarsi nella regione, specie se teleguidati (si pensi alla Macedonia, abitata al 30% da genti di etnia albanese).

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Poteva sembrare scontato alla vigilia, ma il terzo trionfo elettorale di Evo Morales alla guida della Bolivia rende merito al lungo lavoro iniziato sin dal primo mandato per la rinascita sociale ed economica del paese latinoamericano. Lo spoglio delle schede, tuttora ancora in corso, attesta il presidente uscente sul 60% delle preferenze, con un margine di vantaggio nettissimo rispetto al principale oppositore, il signore del cemento Samuel Doria Medina. La Bolivia di Evo Morales somiglia oggi moltissimo a quell'America Latina integrazionista cui il presidente indio aymara aveva più volte fatto riferimento nei suoi discorsi: "innovatrice, progressista, multietnica e multiculturale", che rivendica il territorio, la sovranità e la non ingerenza e dice no "alle privatizzazioni ed alla svendita delle risorse". La pianificazione strategica del primo doppio mandato, contro le ingerenze americane e del Fmi, è proseguita attraverso le chiavi di volta della nazionalizzazione di gas ed idrocarburi e la riforma agraria, tuttora in atto, che sta finalmente cercando di porre fine alla religione del latifondo, allo scopo di ridare dignità e rispetto ai popoli indigeni nella conduzione dei terreni, in nome della salvaguardia dei diritti individuali e collettivi. Nel 2009, inoltre, Morales ha promosso il referendum popolare per l'approvazione di una Costituzione finalmente partecipativa, aperta a tutte le minoranze e non soltanto alla popolazione creola, e che ricevette il sostegno di figure quali Sepulveda, Galeano, Scola ed Esquivel. In base agli exit poll definitivi, il presidente uscente ha trionfato in otto delle nove circoscrizioni boliviane, compresa l'ex roccaforte delle destre di Santa Cruz. Subito dopo i primi spogli, Morales è uscito sul balcone del Palazzo Presidenziale di La Paz per ringraziare i cittadini: "Continueremo a crescere, continueremo il processo di liberazione economica", ha detto. La vittoria ha un sapore speciale, perché rappresenta il trionfo di "anticolonialisti ed antimperialisti". E merita due dediche speciale, come quelle a Fidel Castro ed all'ex presidente venezuelano Hugo Chavez.

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Sono molteplici i focolai di protesta divampati in diverse città del Messico dopo la "scomparsa" di 43 studenti a seguito dei violenti scontri tra manifestanti e polizia avvenuti nello stato del Guerrero lo scorso 26 Settembre. Quei giovani viaggiavano su una carovana di bus che da Ayotzinapa, la città rurale dove studiavano per poter un giorno insegnare, era diretta ad Iguala per una raccolta fondi per il proprio istituto e la commemorazione del massacro degli studenti di Plaza de la Tres Culturas, avvenuta a Tlatelolco il 2 Ottobre 1968. Sulla via del ritorno, appena fuori dalle porte di Iguala, i pullman sono stati circondati ed attaccati da alcune pattuglie della polizia. Le forze dell'ordine, secondo il racconto dei testimoni, hanno iniziato a sparare contro gli studenti: tre vengono uccisi sul colpo, un altro paio gravemente feriti, gli altri tentano di sfuggire all'imboscata e si disperdono per le campagne circostanti. I superstiti, riunitisi nel corso della notte, vengono nuovamente sorpresi da alcuni agenti in borghese (secondo alcuni racconti, si tratterebbe di agenti della Policìa Municipal). Sei i morti in totale, oltre venti i feriti, 43 i desaparecidos tra ragazzi arrestati e fuggiaschi. Solo qualche giorno più tardi, a causa delle insistenti pressioni dell'opinione pubblica, i delegati del Governo Federale hanno fatto l'agghiacciante scoperta: sei fosse comuni con 28 cadaveri, tutti sfigurati e carbonizzati, assolutamente non riconoscibili. Un massacro in piena regola, una repressione ordita ed eseguita da forze dello Stato. Uno scenario che si ripete, dopo l'omicidio di soli tre anni fa di due studenti, trucidati dalla polizia durante le proteste contro i tagli alla scuola Normal di Ayotzinapa, e dopo la guerriglia rivoluzionaria che scosse il Guerrero negli anni '70, quando la rivolta popolare guidata da Lucio Cabanas, immortalata dall'indimenticato scrittore Carlos Montemayor, fu repressa nel sangue dall'esercito regolare. Il Governatore di Iguale si è nel frattempo reso latitante. La protesta contro l'annientamento di Stato è andata in scena in gran parte del paese ed ha visto la partecipazione unitaria di studenti, lavoratori pubblici, operai ed accademici. (foto AP/Lapresse)

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Lo Stato Islamico dell'Iraq e della Grande Siria (Isis) o del Levante (Isil), nato ed autoproclamatosi indipendente il 3 Gennaio 2014, vive con la missione di ridefinire completamente le mappe geografiche orientali. Risale infatti al 29 Giugno scorso la decisione di far scomparire dai documenti ufficiali il nome con cui il regno era stato battezzato: adesso l'Isis è divenuto "Califfato islamico". Dominato dal leader Abu Bakr al-Baghdadi - califfo dei musulmani - il califfato (Al-Dawla al-IslÄmiyya fÄ« al-Ê¿IrÄq wa al-ShÄm il suo nome completo) si estende in un territorio di ben 35 mila km quadrati e attraversa sia lo Stato siriano che quello iracheno, per la precisione da Aleppo (Siria del Nord) alla regione di Diyala (Est Iraq). All'interno del territorio abitano circa sei milioni di persone. Un gran numero di queste - secondo "The Post Internazionale" 80mila circa - sono i combattenti arruolati in maniera forzata o spontanea al servizio della causa musulmana e mandati al fronte per l'espansione territoriale nel nome di Maometto. Un numero piuttosto considerevole se, soltanto nel 2011, la causa contava poco più di mille soldati. Una strategia intrisa di misticismo ed integralismo religioso, ma che rivela un giro di affari straordinario quella dell'Isis: con un patrimonio stimato di 2 miliardi di dollari, derivato dal controllo dei pozzi petroliferi nel territorio occupato, da rapine di banche, riciclaggio di denaro, rapimenti e cospicui finanziamenti provenienti dalle ricche famiglie sunnite degli altri Stati del Golfo, da sempre alleate geostrategiche degli Stati Uniti. La storia del Califfato affonda le sue radici nel lontano 2004, con la nascita del movimento JamÄÊ"at al-Tawḥīd wa-al-JihÄd di Abu Musab al-Zarqawi, che giurò fedeltà ad Osama bin Laden e alla sua Al-Qaeda, di cui al-Baghdadi, dopo una serie di cambi di identità e vicissitudini, ha preso le redini. Il movimento si ispira all'idea di istituire uno stato islamico "puro", aderente ai princìpi dello jihadismo e nasce soprattutto come fantoccio creato dalla guerra voluta da Bush Jr e dalla politica americana in Medioriente. L'Isis dirige in sostanza la sua ideologia nel solco tracciato dalla setta dei Fratelli Musulmani già dal 1928: nessun confronto con l'Occidente, giustificazione e promozione della violenza a fini religiosi e punizione degli apostati. La missione è quella di purificare nuovamente il popolo islamico, "contagiato" da alcune riletture coraniche meno ortodosse, attraverso l'imposizione dell'interpretazione salafita del Corano. Il salafismo - letteralmente i "pii antenati" - è una scuola di pensiero sunnita che identifica come modelli da imitare soltanto le tre generazioni di musulmani che hanno seguito quella del Profeta Maometto. Capitale del Califfato è la città siriana di Raqqa, a cui si sono aggiunte ben sedici province durante la marcia espansionistica dell'Isis. Ma a quanto pare, i confini sono ancora molto labili, tanto che l'Onu, oltre a non aver riconosciuto il Califfato, ha dato l'allarme invitando le autorità irachene a formare un governo il più presto possibile, onde contenere l'avanzata dei guerriglieri. Un'avanzata che sfrutta molto anche l'onda dei social network: attraverso un accurata rete di account twitter, facebook, youtube e blog, i teorici del movimento riescono ad inviare quotidianamente anche 40mila messaggi in inglese e non solo, allo scopo di reclutare giovani che, attratti dal richiamo jihadista, lasciano l'Europa (Londra, Bruxelles, Parigi e Berlino nella maggioranza dei casi) per unirsi alla lotta. Ad affrontare lo Stato Islamico, prima che giungesse la grancassa dei media internazionali e le ennesime richieste di bombardamento umanitario, sono state le forze del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi di orientamento femminista e socialista libertario, che da molti anni tenta di frenare l'avanzata del nemico ed è tuttora nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dal Dipartimento di Stato americano. Proprio in Siria, infatti, la guerriglia curda ha liberato dalle grinfie nemiche l'area del Kurdistan occidentale, ora "zona libera del Rojava". L'Isis, oltre ad attirare l'attenzione con esecuzioni capitali - quelle di James Foley, Steven Sotloff e, da ultimo, l'operatore umanitario britannico David Haines - punta a divenire un vero e proprio "brand del terrore": magliette, gadget, passaporti falsi e addirittura la bandiera del sedicente Stato islamico, acquistabile su E-bay per la modica cifra di venti dollari. Sulla sua stoffa impressa la scritta: "Non c'è dio ma Dio, Maometto è il messaggero di Dio". Proprio negli ultimi giorni l'esercito Usa ha attaccato le posizioni dello Stato Islamico vicino a Baghdad, allo scopo dichiarato di aiutare le truppe a terra nella loro offensiva. I precedenti dell'interventismo d'oltreoceano in Medio Oriente, come detto, sono tutt'altro che incoraggianti: e lo stesso Isis è lì a dimostrarlo. Intanto sale la conta delle vittime: nei primi otto mesi del 2014, più di settemila sono i cittadini iracheni che hanno perso la vita.

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- Giovanni Apadula By
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Stoccolma. Più che la vittoria della sbiadita coalizione di centrosinistra, a far notizia anche in Svezia è l'avanzata prepotente nelle elezioni politiche dell'estrema destra nazionale. Sverigedemokraterna (DS) ha infatti ottenuto il 12,9% delle preferenze, dopo il misero 5,7 accumulato soltanto quattro anni fa. Un risultato che sembra persino mettere in ombra il 31,3% col quale l'opposizione socialdemocratica ha sbancato le politiche, battendo il primo ministro conservatore Fredrik Reinfeldt. Quasi una vittoria di Pirro quella del leader Stefan Löfven perché ottenuta con il numero di preferenze più basso della storia elettorale svedese: circostanza che spingerà il Primo Ministro in pectore alla formazione di un Governo di coalizione, probabilmente con altre forze progressiste del paese quali i Verdi. Soltanto così, infatti, i socialdemocratici possono sperare di avere la maggioranza dei seggi rispetto allo sconfitto centrodestra, al netto del risultato e del ruolo potenziale degli xenofobi di DS. Quest'ultima, infatti, era stata esclusa alla vigilia, almeno a parole, dai principali contendenti per ciò che riguardava i giochi di Governo. Eppure, solo qualche settimana prima l'ex Premier Reinfeldt aveva difeso il diritto di manifestazione di Svenskarnas Parti, partito locale di evidente matrice neonaziosta. Tanto che, a fine Agosto, la protesta inscenata a Malmöe da movimenti antifascisti ed antirazzisti era stata duramente osteggiata dalla polizia. A discapito delle ricerche e degli studi che indicano la Svezia come una delle nazioni più felici al mondo, infatti, la sperequazione sociale ed i meccanismi di aggressione del capitale industriale e finanziario sembrano aver acuito ancor più le tensioni all'interno della società scandinava. Il capitalismo nordico teorizzato da Myrdhal, liberato dalla fiducia cieca nel laissez-faire e sceso a patti con la socialdemocrazia moderata e la sinistra non comunista, aveva garantito anche alla classe lavoratrice suburbana un tenore di vita più accettabile che altrove. Ma le ristrutturazioni economiche avviate a partire dai primi '90 dai governi anche progressisti hanno contribuito al ritorno in auge dello stesso liberismo ortodosso ripugnato sul tramonto degli anni '20 del secolo scorso. La tumultuosa protesta del Maggio 2013 degli abitanti dei sobborghi di Stoccolma, una delle città più ricche d'Europa, fu infatti soltanto la punta dell'iceberg. I numerosi immigrati che popolano le povere bainlieue della capitale svedese misero infatti a nudo le profonde lacune di un sistema di giustizia sociale sempre più teso alla promozione delle privatizzazioni ed alla ristrutturazione delle politiche di lavoro, e sempre più aperto di conseguenza alle degenerazioni razziste. L'uccisione di un 69enne nel sobborgo di Husby fu la risposta infuocata della polizia e del Governo alle voci levatesi da uno dei ghetti più poveri del continente. Ora sarà con ogni probabilità la Grosse koalition progressista a garantire la continuità dell'agenda neoliberista.